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mercoledì 14 luglio 2021

«Un abbraccio controvento»: il racconto, in versi, d’un amore che si riconosce “a prescindere”


Con buona pace della coerenza, signori, eccolo qua il libro – o, per meglio dire, il genere di libro – che  – fino ad un anno e mezzo fa – mai avrei pensato di scrivere: si badi, non ch’io mi vergogni del sentimento che ivi è raccontato, sviscerato, esposto ed offerto – quasi senza remore – alla curiosità del lettore, ma sono perfettamente e pienamente consapevole della circostanza in forza della quale, d’acchito, e cioè in apparenza, potrebbe sembrare che ben poco differenzi questa mia raccolta di poesie d’amore da una qualunque tra la moltitudine di sillogi analoghe che, da quando l’uomo conosce ed adopera la parola scritta, sono state composte e date alle stampe.
Quanto sin qui premesso, dunque, se – da un lato – dovrebbe essere sufficiente a farvi comprendere come il sottoscritto non s’illuda certo d’aprire – per mezzo di questa raccolta d’amorosi versi – chissà quale nuova strada nella storia della letteratura, auspico basti – dall’altro – ad istillare in voi proprio quel pizzico di curiosità cui accennavo pocanzi e – in virtù di quella – siate spinti a domandarvi:
«Ma allora perché l’ha scritta e perché mai dovremmo perdere tempo a leggerla?»
Nel tentativo di rispondere esaurientemente, prendo le mosse dalla considerazione – in vero quanto mai banale – per cui vale per le poesie d’amore quel che vale per le canzoni d’amore: ce ne sono, cioè, di svariate tipologie, ma tutte possono essere ricondotte – alternativamente – alla famiglia degli amori sofferti, disperati e non corrisposti, oppure a quella degli amori – magari non facili da vivere – ma felici e ricambiati.
«Un abbraccio controvento», in uscita per “Il ponte vecchio”, è da annoverarsi certamente – per fortuna – nella seconda schiera: racconta infatti, una volta tanto, un amore corrisposto e ricambiato che – con forza – chiede solo di essere vissuto appieno, di poter dispiegare le sue ali; racconta infatti, una volta tanto, un amore che trova la sua stessa ragion d’essere – la sua essenza, come direbbero quelli che parlan forbito – nella profondità, nella sincerità e nella purezza di un gesto semplice e spontaneo come l’abbraccio, quell’abbraccio che – lui solo – è in grado – ad un tempo – di proteggere, diventando l’approdo e il porto sicuro d’ogni giorno, e di curare – con la stessa attenzione – le ferite di oggi e quelle del passato.
«Un abbraccio controvento» è il racconto, in versi, di come – a volte – può accadere che – nel conoscersi – due persone, due anime, si riconoscano – a prescindere – come l’una appartenente all’altra, non già per via della condizione fisica che le accomuna (rispetto alla quale – e non è un caso – non c’è, in queste liriche, alcun riferimento di sorta), ma perché identico è il modo di sentire, leggere, interpretare ed intendere le troppe contraddizioni del mondo.

Matteo Sabbatani



venerdì 8 maggio 2020

"Luna e sabbie mobili": ecco perché è nata questa nuova raccolta di poesie



Sapete, raramente mi scopro soddisfatto appieno di quel che scrivo e dò alle stampe, ma «Luna e sabbie mobili», la mia quarta raccolta di poesie – in libreria in questi giorni, edita da “Il ponte vecchio” – è, in un certo senso, l’eccezione che conferma la regola.
Dopo averne verificato più volte le bozze – prestando doverosamente attenzione, in quella sede, ad eventuali errori di battitura, refusi eccetera – da un paio di settimane, grazie alla solerzia del mio editore, l’ho per le mani e, per quanto mi costi ammetterlo, devo confessare che a questo bastardo di Coronavirus – che pure ne cagiona il rinvio a data da destinarsi della presentazione – un merito va pur riconosciuto: è fuor di dubbio, infatti, che esso mi dia l’agio, il tempo e il modo di leggerla con tutta calma e di constatare che, questa volta sì, così la volevo, così l’ho pensata e concepita,  e  così mi è venuta.
Già, perché «Luna e sabbie mobili» – che nasce esclusivamente dall’esigenza del sottoscritto di esternare il proprio stato d’animo – è il racconto, in versi, di quella che è stata ed è – da un anno e mezzo a questa parte – la mia “quotidianità esistenziale”; già, perché «Luna e sabbie mobili» è una silloge cruda, sincera e spietata che – a ben vedere – concede poco o nulla a quella sorta di “ottimismo di maniera” (lasciate che lo definisca in questo modo) che si vorrebbe andasse per la maggiore, quando invece so per certo che, nella mia come nella vostra realtà, sono le sabbie mobili a fare la parte del leone.
Vedete, tutti noi – giorno per giorno – lottiamo per non soccombere, per non lasciarci soffocare e sopraffare – appunto – dalle sabbie mobili di una società, quella contemporanea, che – dietro un dinamismo apparente – non fa che perpetuare modelli sempre uguali e ormai stereotipati come il ciclo naturale delle stagioni.
Stante quanto sopra, allora, non è un caso che proprio il ripetitivo, monotono ed immutabile avvicendarsi di primavere, estati, autunni e inverni faccia da sfondo, da “fondale scenico” perfetto al dipanarsi dell’intreccio emotivo che rappresenta il fulcro centrale di una raccolta, questa, che è – ad un tempo – intima e “antropologica”, personale e sociale: perché?
Perché, se è per mera ventura che il destino si avvede della necessità del poeta di esprimersi, ciò si deve – paradossalmente ma non troppo – alla circostanza in forza della quale la postmodernità imperante ha toccato il fondo, l’esasperante ed illogico predominio della funzione sulla struttura ha mostrato la corda e l’anomia di Durkheimiana memoria – cioè quella perdita di valori che, secondo il filosofo e sociologo francese, era stata prodromica all’avvento della società moderna – torna, pure agli albori di un ventunesimo secolo nato amorfo, monco e distorto, a farla da padrona.
In altri termini, il paradosso vuole che il cosiddetto “secolo breve”, in punto di fatto, sia tutt’altro che morto e sepolto, se è vero com’è vero che la società postmoderna continua ad ignorare, non solo e non tanto il senso ottocentesco della differenza tra solidarietà meccanica e solidarietà organica, quanto il significato letterale – ancor prima che etimologico – della parola solidarietà, nonché a fare strame dell’empatia che ad essa dovrebbe accompagnarsi.
E il poeta?
Il poeta non può – se questo è il quadro ed il contesto – che ritrovarsi più che mai solo, non può che avvertire più che mai il peso di una diversità – la sua – che è umana prima che intellettuale e – conseguentemente – non può che lanciare un grido, un’inascoltata ed incompresa richiesta d’aiuto, convinto com’è che l’ansia che lo attanaglia, lo soffoca e gli fa mancare il fiato sia la stessa che imbriglia la vita dei suoi simili, ma che costoro preferiscano (chissà perché?) evitare di prenderne atto, quasi come se il destino della specie fosse ineluttabilmente segnato, come se le curve che il fato disegna non potessero essere che cieche, come se  non restasse altro da fare che lasciarsi abbagliare dal gioco sciocco delle parvenze.
Ecco, è a queste sabbie mobili che il poeta, in un certo qual modo, si rassegna: ne combatte e ne contrasta – beninteso – la forza opprimente, ma constata anche la sostanziale irreversibilità della situazione.
Lo sa bene, a lui basta poco – da poeta – per ritrovarsi, senza parole, nell’abbraccio dell’infinito, oppure per riscoprire tutta la bellezza e la purezza del senso della vita e della poesia in una rosa che resiste ad una nevicata, ma lui col paradosso guerreggia e scende a patti quotidianamente, mentre il resto del mondo – purtroppo – fatica persino a concepirne l’esistenza: infatti, per gli altri – per quasi tutti gli altri – esiste semplicemente la ferrea logica matematica in virtù della quale uno più uno fa due, ed è “gioco, partita e incontro”.
Sì, perché – per gli altri, per quasi tutti gli altri e per il mondo – tutto il resto non esiste o – se esiste – non può essere detto e, se – pena l’emarginazione sociale – non può essere detto, allora si può – ed anzi si deve – fare il possibile per non pensarci e non pensarlo neppure: in fondo – si sa – le regole non scritte sono molto più cogenti di quelle formali, nella misura in cui anche la politica – lungi dal farsi carico dell’onere di fornire una prospettiva – si “sterilizza” nella mera  rincorsa trasformistica al consenso ed alla visibilità, con buona pace di quei principi costituzionali che ne dovrebbero orientare l’agire, oltre che della decenza.
Soluzioni, vie d’uscita?
Signori, non ce ne sono, dal mio punto di vista; signori, io – da povero poeta quale pure sono – non ne vedo; signori, poi – dopotutto – non è a me che dovreste rivolgervi: dunque, a me – per favore – non domandate.
Sapete, io – se volete – posso tentare di spiegarvi, ammesso che ci sia una spiegazione razionale, come e perché – finito un temporale, mentre il sole torna a farsi largo tra le nubi – può nascere una poesia; io, se volete, posso raccontarvi come e perché – a volte – si scrivano versi financo per scaramanzia, tentando di esorcizzare il timore – sempre presente – che la nostra fine giunga troppo presto e troppo in fretta; io, se volete, posso dirvi che fermarsi dove si è e prender fiato – in taluni casi – è sufficiente a far ‘sì che il fantasma d’un vecchio amore “a senso unico” se ne resti relegato tra i ricordi; io, per esperienza personale, posso parlarvi di come – inaspettato ed ormai insperato – un nuovo amore, finalmente ricambiato, sia perfino in grado di  instillarvi il dubbio che – poiché un’anima di raso può diventare una casa accogliente e sicura – allora, forse, c’è ancora modo di salvarsi dall’imminente, vertiginoso tracollo.
Più di questo, però – in tutta onestà – non posso fare, un po’ perché – come accennavo pocanzi – non mi compete e un po’ per scelta: sono – e ne vado fiero – un uomo di lettere e di pensiero, un intellettuale – per così dire – e, dunque, a me spetta la denuncia, non certo la proposta.
Tuttavia – poiché conosco e studio “gli umani accidenti” – vi esorto a ritrovar voi stessi negli occhi assetati di vita d’un bimbo: per lui – che ha appena quattro anni – questi discorsi, adesso, sono ovviamente assurdi (tutta colpa di zio che perde tempo a studiare) ma, domani, sarà proprio a lui – e a quelli come lui – che dovremo render conto del come e del perché siamo finiti in questo pantano, del come e del perché – distratti dal troppo che abbiamo – ci siamo dimenticati d’essere uomini, ossia di avere il monopolio – e non solo l’usufrutto – di quella Conoscenza che, da sempre, è l’arma più potente che esista.

sabato 27 aprile 2019

Prêt-à-Porter


Vivere è, ogni giorno,
indossare, con classe,
l'elegante vestito
dei propri impagabili difetti,
facendo attenzione
che il leggero cappello di pregi
calato sul capo
non voli mai via.

sabato 2 marzo 2019

Ebbene sì, al passo coi tempi

Di Matteo Sabbatani

Ebbene sì, sono un figlio del tardo novecento; ebbene sì, ho pure una formazione novecentesca: dunque?
Lo so, sulla base dei vostri cliché – peraltro quantomai contraddittori (così stereotipati e, al tempo stesso, mutevoli e fungibili) – io non sono “al passo coi tempi”: cioè?
Qual è – di grazia – il significato reale, effettivo e concreto di una locuzione come quella di cui sopra? Su, coraggio: cosa vuol dire “essere al passo coi tempi?”
No, vi prego di credermi, la mia domanda è sincera e non cela alcun intento polemico: semplicemente, m’appello alle vostre menti eccelse per essere portato a conoscenza del senso esatto di una espressione che, ormai, è entrata nel linguaggio corrente; semplicemente – giuro – ve lo domando perché, stolto come sono, non capisco, però so  che vorrei“saperne sempre di più”…
Ora, certo che la vostra risposta sarà rigorosa, completa, corretta, puntuale e più che mai esaustiva, non ho dubbi che – dall’alto della vostra insigne sapienza – proprio perché siete “al passo coi tempi”, coglierete al volo l’occasione (io, fossi in voi, lo farei) per illustrarmi anche – una di seguito all’altra e con dovizia di particolari, s’intende – le stravolgenti e sconvolgenti novità “partorite” – sul piano epistemico, euristico e gnoseologico – da questi primi vent’anni scarsi del duemila.
Non capite? Come sarebbe a dire che non capite? Vi chiedo cosa c’è di nuovo – da un punto di vista meramente culturale – in questo inizio di secolo e voi – che, al contrario di me, a buon diritto, potete annoverarvi tra coloro che sono al passo coi tempi – non capite? 
Francamente, rimango esterrefatto e basito: qualcosa non va.
Vedete, io – che non sono al passo coi tempi per via della mia formazione novecentesca – ad esempio, so cos’è, com’è fatta e “cosa dice” la Costituzione, tal che – conoscendo approfonditamente non solo la nostra – mi arrogo il diritto – anche se non lo sono in punto di fatto – di sentirmi offeso se e quando – come pure talvolta accade – qualcuno, non avendo nemmeno idea – detto per inciso – della differenza tra la Legge fondamentale dello Stato (ossia la Costituzione, appunto) e una Legge ordinaria, mi apostrofa come “il costituzionalista del cazzo”.
Vedete, io – che, complice la mia formazione novecentesca, non sono al passo coi tempi – per ore, potrei dissertare con voi – ad esempio – della differenza tra potere e potenza: cioè di come essa sia insita  nel rapporto “comando-obbedienza”, ovvero nella distinzione tra Coazione, intesa come uso legittimo della forza, e coercizione, che – invece –  corrisponde all’uso della forza medesima a prescindere da qualsivoglia legittimazione.
Oppure, il sottoscritto – pur non essendo al passo coi tempi – potrebbe parlarvi di come, ad esempio, proprio dalla dicotomia “potere-potenza” sia scaturita l’enunciazione – ad opera di un tal Max Weber, sociologo tedesco – delle tre forme pure nelle quali, storicamente, si è manifestato il potere, nonché di come – a dire il vero – le medesime conclusioni fossero già state tratte – in ben altro contesto – da un signore di nome Gorgia che – nell’Antica Grecia, secoli e secoli prima di Cristo (e prima ancora di Socrate, Platone ed Aristotele) – fu filosofo.
E con la stessa passione – da uomo d’altri tempi quale sono –  vi spiegherei volentieri la differenza tra metafora e similitudine, tra sinestesia e sineddoche, tra iterazione ed allitterazione, tra climax ed anafora, tra iato e sinalefe, tra quinari, senari, settenari, ottonari e novenari – da una parte  e – dall’altra – deca, endeca e dodecasillabi.  
Ma sarebbe – me ne rendo conto – fiato sprecato: voi – che avreste serie difficoltà a collocare Trieste e Perugia sulla carta geografica, ma andate in vacanza alle Maldive (ché tanto basta prendere l’aereo giusto) – non avete nessun interesse a conoscere il valore, il significato e la funzione dei segni d’interpunzione e/o a comprendere la logica sottesa al loro corretto utilizzo.
Allora, oso – e poi giuro che mi taccio – porvi nuovamente la domanda e, col rischio di sembrare petulante, torno a chiedervi: cosa vuol dire – di grazia – essere al passo coi tempi?
Vuol dire – me lo insegnate voi – non accorgersi, più o meno volontariamente, del nauseabondo ed asfissiante odore di nulla e di vuoto che emana questa società dell’apparenza; vuol dire – me lo insegnate voi – aver smarrito la coscienza e la consapevolezza di ciò che siamo stati e di ciò che siamo – o dovremmo essere – al solo scopo di esaltare narcisisticamente  l’ego e gli istinti più retrivi di tutti e di ciascuno, cosa che – sul piano sociale, o meglio, sul piano del vivere comune – si traduce nel calpestare in modo sistematico – non solo in senso figurato, purtroppo –  l’altro e/o gli altri; vuol dire – mi inducete voi ad arguirlo – che questo povero poeta,  quest’umile scrittore, questo straccio di sociologo e di uomo può continuare a far vanto – a testa alta e con orgoglio – del suo non essere al passo coi tempi.                                                                                                                                                                                                   

martedì 7 agosto 2018

Verso il niente (così..., per scaramanzia)

E sono qui, alle prese con un tempo
che si diverte a darmi un gran tormento;
ed ora mi ritrovo a fare il conto
di quel che ho seminato e mai raccolto;
e poi le mille attese che ho deluso;
e quel che ho cominciato e non concluso,
che è ancora lì e che scruta, da sornione,
questa partita tra me e la ragione:
lo so, chi perde passa per coglione,
ma non ho più la forza di reagire,
di scegliere qual è, tra le altre mire,
quelle che ancora voglio perseguire.
Capirò tutto soltanto nel giorno
della partenza che non ha ritorno:
scoprirò il senso di questo vagare,
solcare a stento le onde di un mare
che è questa vita intera da “dragare”
fino a raggiungere quell’orizzonte
che non è inizio né culmine o ponte,
che non ha linea né curva né retta.
È verso il niente che andiamo di fretta:
se – con l’età – la bellezza sfiorisce,
è che ogni cosa – prima o poi – finisce
e sol lo stolto, che non lo capisce,
crede la brezza della primavera
possa – d’incanto – durar fino a sera.
Ma i più lo sanno e vivono il momento,
consci che – un dì – torneranno nel vento.



domenica 5 agosto 2018

Guadando una notte insonne


Almeno, adesso,
cantano solo i grilli
e le cicale
non riempiono di strilli
il cuore della notte,
mentre ancor sale
un’afa dispettosa
che non concede posa
a chi pur vuol dormire.
Almeno, adesso,
un refluo coraggioso
tenta di fare breccia,
indomito e orgoglioso,
in quest’aria meticcia
dalla calura assurda
che tira ancor la corda
e sfida la pazienza
dell’uomo e della scienza:
che questa sia l’estate
non posso dubitare
e i reflui e le folate
di vento un po’ più fresco
l’alba fan traguardare
a chi vede assai fosco
il giorno che ora nasce

venerdì 4 maggio 2018

«A mani alzate. Appunti di viaggio di un resistente contemporaneo», il mio nuovo libro

Scrivere, no, non è un mestiere: non lo è, non lo è mai stato, né mai lo sarà per nessuno, nemmeno per chi – al contrario di me – ha la fortuna di riuscire a trarne sostentamento.
No, lo ripeto, scrivere non è un mestiere, non è una professione: non si scrive – raccontando di sé – per dovere verso terzi; non si scrive – raccontando di sé – “a comando”, ma può capitare – e a me qualche volta è successo – che il destino s’inventi, per così dire, un’occasione: può accadere, cioè, che si venga chiamati ad esprimere il proprio punto di vista, la propria opinione, il proprio pensiero, il proprio sentire – circa un evento, un accidente del mondo, una circostanza – nel momento esatto in cui più forte, più pressante, più impellente si avverte l’esigenza di esternare uno stato d’animo, di “denunciare” la particolare contingenza che si sta vivendo, tal che al poeta non resta che “cogliere l’attimo”.
Ebbene, in quarant’anni di vita – più della metà dei quali, chissà poi perché, trascorsi a ritagliarmi sempre il tempo per cercare di capire, di capirmi e di trasferire sulla carta sensazioni ed impressioni – di attimi ne ho colti davvero tanti, fossero essi personali e privati – che andavano a punteggiare la traiettoria della mia esistenza – o collettivi e pubblici, tali da lasciare un segno – anche piccolo – nella Storia con la S maiuscola.
Ma, e sono sincero, a farne un libro – o meglio, un’antologia – proprio non ci avevo – e non ci avrei mai – pensato: perché? Perché, d’accordo, sono un poeta e, come tutti i poeti, sono narciso ed autoreferenziale, ma non ho – né ho mai avuto – l’ardire di credere che ogni cosa che scrivo sia degna di nota a prescindere.
A Giorgia Tampieri, artista dal sicuro avvenire che – a colpi di graffite, pastello nero e penna a sfera – ha ritratto il sottoscritto nella copertina, va un “Grazie” sentito, sincero, tutt’altro che rituale o di circostanza: dopo aver scorso le bozze di un libro come questo – che uscirà a maggio per Bacchilega Editore ed è un viaggio, un po’ in versi e un po’ in prosa, tra le diverse ere attraversate da quest’uomo che sono negli ultimi decenni – le sono bastate due chiacchiere per riuscire a sintetizzare mirabilmente, e non era facile, il momento che vivo, il senso di un percorso esistenziale affrontato, sin qui, «A mani alzate», con la consapevolezza che si esiste solo se si resiste e – ovviamente – viceversa.
Di più, almeno per ora, non vi dico, se non che – con l’amica poetessa Rosarita Berardi – vi aspetto per parlarne sabato 12 maggio, alle 10 e 30, alla Sala San Francesco della Bim, biblioteca comunale di Imola, in via Emilia 80, e che è possibile, sin da ora, prenotare il libro contattando la Bacchilega Editore o inviando una mail all’indirizzo: info@bacchilegaeditore.it