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venerdì 14 dicembre 2012

SEZIONE 1: RIFLESSIONI - IL MIO NUOVO LIBRO

E' uscito, per Bacchilega editore,

"ANFRATTI DEL PENSIERO SOTTILE"

il nuovo libro di Matteo Sabbatani

“No, non è successo assolutamente nulla di rilevante tra il gennaio e l’agosto del duemila dodici, nulla che avesse la benché minima portata storica, nulla che valesse la pena di essere ricordato e di ricordare; no, è successo semplicemente che il sottoscritto – complice il verificarsi di una serie di concomitanti contingenze non sempre positive – ha avuto tempo, troppo tempo, per pensare e – si sa – quando ad un poeta si lascia persino il tempo di pensare, il rischio che questi finisca col “partorire qualcosa” è più elevato che in altri frangenti: noi, infatti, si è – per natura – portati a riflettere e il nostro – altrettanto innato – egocentrismo ci induce a ritenere, per di più, che agli altri possa financo interessare qualcosa delle tante elucubrazioni alle quali – in tali circostanze, ma non solo – amiamo abbandonarci.
Che volete, siam poeti, siam fatti così – quindi – e, perdonate la leggera presunzione, ma credo sarebbe profondamente ingiusto se, da parte vostra, ce ne faceste una colpa: sì, d’accordo, quelli di voi che – pur incontrandoci ogni giorno – ignorano volutamente che questo, in fin dei conti, è il nostro vero mestiere – sempre che ammettano che qualche poeta sia esistito o esista ancora – ci dan comunque quasi per estinti (e, a ben vedere, non potrebbe essere altrimenti), ma gli altri –quei pochi che, in ogni caso, hanno imparato a sfidare la sorte mostrandosi per come sono – non possono non sapere che, almeno in parte, il merito è anche nostro e che – appunto – per loro come per noi, solo di merito si tratta”.
(Matteo Sabbatani)

PRESENTAZIONE UFFICIALE SABATO 15 DICEMBRE, ALLE 16 e 30, PRESSO LA SALA DELLE STAGIONI (Via Emilia, 25 - Imola)

venerdì 30 novembre 2012

Una telefonata

Una voce,
un: "Pronto"
e il cuore che sobbalza.
D'accordo,
viene da un passato prossimo,
se non ormai remoto,
ma è comunque la sua voce
e, in un attimo,
svanisce, come sempre,
anche la rabbia:
povero me,
nonostante tutto,
sono ancora chiuso in gabbia.
Ah, non avessi mai chiamato!
Lei non saprebbe, ora,
del mio ultimo nato,
su questo non v'è dubbio;
ma io, soprattutto,
non starei qui, da un ora,
a rimpianger quel che è stato,
cosa che non serve,
che toglie tempo e fiato
financo alle rirserve
dell'io che ho ritrovato,
ricostruito,
rifondato.
Sì, lo so,
resterà tutto sospeso:
così rinsavirò
e tornerò ad essere offeso
dal repentino addio,
senza parole nè spiegazione alcuna,
che lei affidò alla luna,
gettando nell'oblio
la muta mia fortuna
d'averla solo amata.

martedì 11 settembre 2012

Pazzo? No, semplicemente poeta


Smonto e rimonto questa stanzetta a seconda del momento, come fosse un puzzle, come se giocassi a Tetris.
È passato qualche tempo, roba di mesi, ma – per favore – non stupitevi se, stante quanto sopra, quelle tre o quattro riflessioni che pure avevo postato non le trovate più. No, non sono sparite e, anzi, chi vorrà, potrà rileggerle molto presto: ora come ora, infatti, è bene che non ve ne parli troppo, ma vi sto preparando una sorpresa, un regalino da scartare a Natale o giù di lì e, ve lo posso assicurare, il senso più compiuto e completo di quelle cose lo scoprirete allora.
Nel frattempo, ma ve ne renderete conto voi stessi, ho la più ferma intenzione di fare capolino spesso “tra queste mura amiche e confidenti”: perché? Fatti miei, se permettete: sappiate solo che ho bisogno di parlare, di dire senza essere frainteso, interpretato, utilizzato, senza creare problemi a me stesso e/o a chi mi sta vicino, cosa che è successa – purtroppo – e della quale mi dolgo profondamente, essendo consapevole di aver agito – in ogni circostanza – nella più totale buonafede.
Sono un poeta – perché questo, in vero, è il mio lavoro – e dovrei sapere bene, meglio di chiunque altro, che le parole sono la più classica e banale delle armi a doppio taglio, che – specialmente se interpretate, lette o riferite in virtù di una qualunque convenienza, anche estemporanea – possono far male.
Ma il poeta – che è “incontinente” per natura – è anche, per converso, “la spugna della gente”: ne assorbe gli umori, le diffidenze, i reciproci sospetti – fondato o meno che siano poco importa – e poi li mescola coi suoi e ne sputa il risultato così come viene, con buona pace di chi ascolta – che è totalmente ignaro del processo sin qui descritto – e, quindi, della integrità del messaggio.
Sto male, sto male dentro: di chi posso fidarmi, se stan così le cose?
Solo di me stesso, dunque, e forse neanche fino in fondo!

lunedì 12 marzo 2012

Parte da Imola, il prossimo 21 aprile, il nuovo tour di Roberto Vecchioni. Ecco perchè, ancora una volta, lo ringrazierò


Lo so, rischio persino di essere ripetitivo, melenso, patetico, ma tant’è: non obbligo mica nessuna a leggere queste poche righe, a seguirmi, ad inoltrarsi con me in un sentiero – questo – che, come accade molto di rado, ha un percorso chiaro, definito e privo – sin dalla partenza – di ostacoli, tortuosità improvvise, curve a gomito o “a radicchio”.
Dunque, una volta tanto, nessun mistero: si sa da dove si parte e dove si va a parare, e poco male se manca un po’ di suspance, se non stuzzico l’avida curiosità di qualcuno.
Vedete, nella vita, le svolte – belle o brutte che siano – arrivano, nella stragrande maggioranza dei casi, quando meno te le aspetti, quando ti sembra che ormai la tua esistenza sia irrimediabilmente incanalata – piaccia o non piaccia – in una direzione precisa, tanto che stai quasi per arrenderti all’evidenza: hai già aperto un cassetto sufficientemente grande, almeno speri, da contenere anima, sogni, speranze e, insomma, te stesso, con quel pessimo vizio che ti ritrovi addosso – e chissà poi perché – di ragionare sulle cose, dare peso e senso alle parole, formarti opinioni, avere idee, guardare un po’ più in là di un naso – il tuo – che pure è pronunciato, spaccare in quattro il proverbiale capello, vivere.
Fatto sta che il calendario è lì a ricordarti – e con tassonomica puntualità – che compirai diciotto anni nel giro, esatto-esatto, di una settimana ed è certo che li festeggerai – si fa per dire – tra gente che, eccezion fatta per uno, non conosci, non ti conosce e con te ha in comune soltanto – almeno al momento – il generico status di disabile; poi c’è un nipote – il primo nipote – in arrivo di lì a qualche mese, verso il quale – benché si porti via tuo fratello – senti di nutrire, sin d’ora, un affetto sconfinato: perché? Perché è il primo, certo; perché è – appunto – tuo nipote ed è un bimbo che – domani – sarà ragazzo, persona e uomo migliore di te, altrettanto sicuramente; ma anche – e forse soprattutto – perché sai, tu sai, che lui non centra proprio niente col mondo nel quale – suo malgrado – dovrà campare.
In un pomeriggio di maggio, mentre questo grande frullatore non smette neppure per un attimo di mescolarti in testa pensieri ed emozioni così, ti ritrovi seduto su una poltroncina del teatro d’una città chiamata a raccolta per il ventennale della scuola che frequenti e vedi che, sul palco, accanto al preside e al suo vice, c’è un omino piccolo con una carica interiore che a te pare enorme: Roberto Vecchioni – o meglio, il professor Roberto Vecchioni – è uno che viene da Milano, insegna lettere al liceo, ma fa anche il cantante; Roberto Vecchioni – o meglio, il professor Roberto Vecchioni – è famoso perché ha scritto quella canzone che fa:
«Oh-oh cavallo»
Ecco, saluta, ringrazia per l’invito, comincia a parlare – badate bene, a parlare, non a cantare – e dice cose che – se le dicessi tu, tu che le hai tutte dentro e le senti fare una ressa tremenda tra gli ingranaggi del frullatore – ti prenderebbero per pazzo; invece no, le dice lui e non vola una mosca, cazzo.
Parla e parla ancora – l’omino sul palco –di vita, passione, del senso delle cose – tutte le cose, anche il dolore – e, tombola, dell’importanza e del peso che hanno parole – tutte le parole, quelle che diciamo e quelle che ci vengono dette – e tu ascolti e ti accorgi – per la prima volta in vita tua – che a questo mondo – dove sembra contare moltissimo come sei e niente, o quasi niente, chi sei – c’è anche gente che “parla la tua lingua”, o comunque una lingua simile a quella che – potendo – anche tu parleresti. Certo, c’è pur sempre Dio di mezzo e, con Dio – a quell’età e nella condizione in cui sei – tu hai ancora un paio di conti da saldare: è normale, quindi, che qualche passaggio non sia – a tuo modo di vedere – totalmente condivisibile, ma – in generale – il discorso ti piace, senti che è vero.
Adesso, pare che financo il frullatore si sia fermato, ma  forse gira solo più lentamente e ti concede – in questo modo – di cominciare a “censire” quella confusione, a discernere, a distinguere emozione da emozione; adesso – in un angolino della tua mente – scopri l’immagine di cinque dita di mano serrate in un pugno; adesso guardi e ascolti quell’uomo e pensi:
«Riesce a spiegarti cosa c’è tra dito e dito quando le dita sono chiuse»!
Ora – in altri termini – hai la certezza incrollabile d’esser meno solo e…, sì…, anche meno diverso; ora, in altre parole, sai – e non perché lo dice lui, ma perché ne hai inconfutabilmente la prova provata – che non eri in errore, non ti sbagliavi quando – intuitivamente – arrivavi a dire a te stesso che il senso deve avere molti più colori di quelli che una quotidianità come la tua ti consente di vedere: già, dietro quel «oh-oh cavallo», tanto per fare un esempio, c’è – infatti – tutta la potenza evocativa – e il professore lo chiarisce inequivocabilmente – di una metafora folgorante sull’esistenza e la sua fine e, se è così, allora è sempre possibile – e soprattutto è lecito per chiunque, anche per te – andare oltre le apparenze, tentare di percorrere strade che – a rigor di logica –ti sarebbero precluse perché troppo impervie…
Se oggi – nonostante tutto – pur essendo inevitabilmente un “pinocchio alla rovescio”, anche il sottoscritto può fregiarsi del titolo di Dottore è perché – quel pomeriggio – qualcuno gli ha fatto capire che – come canterà qualche anno più tardi – c’è sempre “uno sputo di cielo” da illuminare.
Ringraziare quest’uomo ogni volta che lo vedo, pertanto, mi pare il minimo ch’io possa fare e – si badi – non è un rito, non è il portato di una sterile e puerile «idolatria da fan incallito»: le svolte sono tali se – e solo se – sono figlie della coerenza.

 

Matteo Sabbatani

domenica 5 febbraio 2012

Benvenuti


Quanti di voi – e suppongo siano molti – non hanno mai commesso l’imprudenza di ficcare qualche volta il naso nell’omonima stanzetta che – col supporto di un’altra piattaforma virtuale – ho curato e tenuto per anni potrebbero – lo dico per esperienza – persino stupirsi dei tortuosi sentieri che – per volontà del sottoscritto – si ritroveranno, di tanto in tanto, a percorrere qui di seguito: è prima di tutto a quegli impavidi, quindi, che va – sin d’ora – il mio più sincero e sentito benvenuto.
Un blog, almeno per come lo intende – e per l’uso che ne fa – chi scrive, è una specie di diario, o meglio, una sorta di “pattumiera” – se mi è concessa la licenza – in cui, periodicamente e per bisogno, gettiamo tutte le maschere che l’esistenza quotidiana ci costringe ad indossare  e – per qualche attimo – cerchiamo di metterci a nudo, di ritornare e ritrovare noi stessi.
Di primo acchito, perciò, questa stanzetta potrebbe sembrare simile – se non addirittura uguale – a tante altre, ma c’è un “Ma”: a dispetto del lavoro che faccio – che poi è quello che trovate indicato nella breve biografia qui accanto – io sono anche – come potete intuire scorrendo la medesima biografia – un poeta, uno scrittore…, insomma,… un letterato, o almeno sono convintissimo di esserlo e credo conveniate con me che – quando i pazzi sono convinti di una cosa – contraddirli, oltre che perfettamente inutile, potrebbe rivelarsi financo pericoloso…!
Ecco, forse ora cominciate a capire perché è da imprudenti mettere il naso qui dentro, eppure spero siate in parecchi a farlo: noi poeti, si sa, pecchiamo spesso di narcisismo – cosa che ci induce a considerare bellissimo, splendido, perfetto ed elevatissimo tutto ciò che scriviamo – ma occorre pur sempre qualcuno che avalli ed avvalori questa nostra convinzione, altrimenti cadiamo in depressione e, quando è depresso, un poeta cosa fa? Scrive, ovviamente: punto e a capo, cioè!
Quindi, riassumendo, questo è il blog di uno che fa tutt’altro nella vita (ed è ben fiero e felice di farlo), ma che è anche poeta, scrittore e – così, a tempo perso, tanto per non farsi mancare niente – pure sociologo, ancorché non praticante; è il blog di uno che – in un’epoca insensata – si ostina a cercare il senso delle cose; è il blog di uno che non vuole che suo nipote – domani, guardandolo negli occhi – possa dirgli:
“Tu c’eri, hai visto e non hai fatto niente!”
E poi? Ah sì, dimenticavo, è anche il blog di un portatore di handicap, di un diversamente abile che non ha vergogna del suo modo di essere e del suo stato, ma – come avrete capito – questa altro non è se non un’altra storia, un altro sentiero, uno dei tanti che – se vorrete – percorreremo insieme.

Matteo Sabbatani