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lunedì 12 marzo 2012

Parte da Imola, il prossimo 21 aprile, il nuovo tour di Roberto Vecchioni. Ecco perchè, ancora una volta, lo ringrazierò


Lo so, rischio persino di essere ripetitivo, melenso, patetico, ma tant’è: non obbligo mica nessuna a leggere queste poche righe, a seguirmi, ad inoltrarsi con me in un sentiero – questo – che, come accade molto di rado, ha un percorso chiaro, definito e privo – sin dalla partenza – di ostacoli, tortuosità improvvise, curve a gomito o “a radicchio”.
Dunque, una volta tanto, nessun mistero: si sa da dove si parte e dove si va a parare, e poco male se manca un po’ di suspance, se non stuzzico l’avida curiosità di qualcuno.
Vedete, nella vita, le svolte – belle o brutte che siano – arrivano, nella stragrande maggioranza dei casi, quando meno te le aspetti, quando ti sembra che ormai la tua esistenza sia irrimediabilmente incanalata – piaccia o non piaccia – in una direzione precisa, tanto che stai quasi per arrenderti all’evidenza: hai già aperto un cassetto sufficientemente grande, almeno speri, da contenere anima, sogni, speranze e, insomma, te stesso, con quel pessimo vizio che ti ritrovi addosso – e chissà poi perché – di ragionare sulle cose, dare peso e senso alle parole, formarti opinioni, avere idee, guardare un po’ più in là di un naso – il tuo – che pure è pronunciato, spaccare in quattro il proverbiale capello, vivere.
Fatto sta che il calendario è lì a ricordarti – e con tassonomica puntualità – che compirai diciotto anni nel giro, esatto-esatto, di una settimana ed è certo che li festeggerai – si fa per dire – tra gente che, eccezion fatta per uno, non conosci, non ti conosce e con te ha in comune soltanto – almeno al momento – il generico status di disabile; poi c’è un nipote – il primo nipote – in arrivo di lì a qualche mese, verso il quale – benché si porti via tuo fratello – senti di nutrire, sin d’ora, un affetto sconfinato: perché? Perché è il primo, certo; perché è – appunto – tuo nipote ed è un bimbo che – domani – sarà ragazzo, persona e uomo migliore di te, altrettanto sicuramente; ma anche – e forse soprattutto – perché sai, tu sai, che lui non centra proprio niente col mondo nel quale – suo malgrado – dovrà campare.
In un pomeriggio di maggio, mentre questo grande frullatore non smette neppure per un attimo di mescolarti in testa pensieri ed emozioni così, ti ritrovi seduto su una poltroncina del teatro d’una città chiamata a raccolta per il ventennale della scuola che frequenti e vedi che, sul palco, accanto al preside e al suo vice, c’è un omino piccolo con una carica interiore che a te pare enorme: Roberto Vecchioni – o meglio, il professor Roberto Vecchioni – è uno che viene da Milano, insegna lettere al liceo, ma fa anche il cantante; Roberto Vecchioni – o meglio, il professor Roberto Vecchioni – è famoso perché ha scritto quella canzone che fa:
«Oh-oh cavallo»
Ecco, saluta, ringrazia per l’invito, comincia a parlare – badate bene, a parlare, non a cantare – e dice cose che – se le dicessi tu, tu che le hai tutte dentro e le senti fare una ressa tremenda tra gli ingranaggi del frullatore – ti prenderebbero per pazzo; invece no, le dice lui e non vola una mosca, cazzo.
Parla e parla ancora – l’omino sul palco –di vita, passione, del senso delle cose – tutte le cose, anche il dolore – e, tombola, dell’importanza e del peso che hanno parole – tutte le parole, quelle che diciamo e quelle che ci vengono dette – e tu ascolti e ti accorgi – per la prima volta in vita tua – che a questo mondo – dove sembra contare moltissimo come sei e niente, o quasi niente, chi sei – c’è anche gente che “parla la tua lingua”, o comunque una lingua simile a quella che – potendo – anche tu parleresti. Certo, c’è pur sempre Dio di mezzo e, con Dio – a quell’età e nella condizione in cui sei – tu hai ancora un paio di conti da saldare: è normale, quindi, che qualche passaggio non sia – a tuo modo di vedere – totalmente condivisibile, ma – in generale – il discorso ti piace, senti che è vero.
Adesso, pare che financo il frullatore si sia fermato, ma  forse gira solo più lentamente e ti concede – in questo modo – di cominciare a “censire” quella confusione, a discernere, a distinguere emozione da emozione; adesso – in un angolino della tua mente – scopri l’immagine di cinque dita di mano serrate in un pugno; adesso guardi e ascolti quell’uomo e pensi:
«Riesce a spiegarti cosa c’è tra dito e dito quando le dita sono chiuse»!
Ora – in altri termini – hai la certezza incrollabile d’esser meno solo e…, sì…, anche meno diverso; ora, in altre parole, sai – e non perché lo dice lui, ma perché ne hai inconfutabilmente la prova provata – che non eri in errore, non ti sbagliavi quando – intuitivamente – arrivavi a dire a te stesso che il senso deve avere molti più colori di quelli che una quotidianità come la tua ti consente di vedere: già, dietro quel «oh-oh cavallo», tanto per fare un esempio, c’è – infatti – tutta la potenza evocativa – e il professore lo chiarisce inequivocabilmente – di una metafora folgorante sull’esistenza e la sua fine e, se è così, allora è sempre possibile – e soprattutto è lecito per chiunque, anche per te – andare oltre le apparenze, tentare di percorrere strade che – a rigor di logica –ti sarebbero precluse perché troppo impervie…
Se oggi – nonostante tutto – pur essendo inevitabilmente un “pinocchio alla rovescio”, anche il sottoscritto può fregiarsi del titolo di Dottore è perché – quel pomeriggio – qualcuno gli ha fatto capire che – come canterà qualche anno più tardi – c’è sempre “uno sputo di cielo” da illuminare.
Ringraziare quest’uomo ogni volta che lo vedo, pertanto, mi pare il minimo ch’io possa fare e – si badi – non è un rito, non è il portato di una sterile e puerile «idolatria da fan incallito»: le svolte sono tali se – e solo se – sono figlie della coerenza.

 

Matteo Sabbatani