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mercoledì 27 novembre 2013

Birilli


S’intende, non è detto che le cose vadano sempre nel modo a noi più congeniale, ma un principio di giustizia – se non in questo, almeno nell’altro mondo (ammesso che ne esista un altro) – deve pur esserci, non trovate?
Vero è che Pitagora funziona solo a scuola e solo per i triangoli rettangoli – cioè quelli coi cateti e l’ipotenusa, per capirci – mentre avrebbe fatto meglio, sul resto – su tutto il resto – a tacere, a tenere per sé tutte quelle dissertazioni sull’armonia: già, perché tutto, invece, procede – a ben guardare – esattamente al contrario, tutto è disarmonico e casuale, o segue – se non altro – una logica a noi sconosciuta, incomprensibile ed inintelligibile.
Non lo so, non so se quanto sto scrivendo abbia effettivamente un senso – o forse lo so e, proprio per questo, evito di prendere di petto l’argomento – ma, ancora una volta, approdo alla scrittura come un naufrago ad un’ancora di salvezza, consapevole che – ora come ora – solo lei mi può salvare, che solo a lei ed al riserbo posticcio e falso di questa piccola stanzetta virtuale – ora come ora – posso affidare lo stato d’animo che mi pervade, questa sensazione di totale ed assoluta impotenza nei confronti del destino.
Birilli, semplicemente birilli, ecco quel che siamo: accuratamente posizionati – per mano del fato – su quel grande biliardo che è la vita, non facciamo altro – con quanta e quale reale consapevolezza poco importa – che attendere di essere schiacciati da quella pallina che, quando nascemmo, la sorte stessa ci concesse di lanciare, riservandosi beffardamente il diritto – in nostra vece – di stabilire la forza e la velocità del tiro.
Birilli, signori miei, nient’altro che birilli siamo e – quel che è peggio – ci accompagna la certezza che urlare proprio non servirebbe: solo una parte dei nostri simili – quelli che di ciò hanno contezza – udrebbe i nostri strepiti, ma – al pari di noi – sarebbe sostanzialmente inerme, pur impegnata a cimentarsi nel nostro medesimo esercizio, ossia nello strenuo e sterile tentativo di evitare l’inevitabile.
Ebbene, lo ammetto, molte delle circostanze che ero avvezzo – un tempo – a considerare come incontrovertibili dati di realtà cominciano a vacillare, a scricchiolare e a mostrare la corda, tal che mi chiedo – senza retorica – di chi sia la colpa: mi domando, cioè, se tutto ciò si debba – e in che misura – all’incipiente obsolescenza cui, per natura, vanno incontro le alterne vicende umane, oppure ad altro.
Allibisco, resto sgomento, interdetto: timori?
No, non temo proprio nulla: non vedo – d’altronde – né cosa dovrei temere, né perché, visto che il destino è tale – ossia in gran parte ignoto – comunque, in ogni caso, sia che noi lo si tema, sia che noi si viva infischiandoci bellamente dei suoi misteriosi ed imperscrutabili disegni.
Ma la constatazione di essere un birillo, permettetemelo – per quanto ovvia e, anzi, forse persino scontata possa sembrare – resta dura da mandar giù, da «digerire», da assimilare: fa a pugni con la supponente e presuntuosa – seppur sommamente presunta – onnipotenza dell’essere umano il quale, si sa, fonda la sua esistenza su un presupposto di invincibilità che non ha nulla di scientifico e/o d’oggettivo, ma che funge – qui ed ora – da imprescindibile fondamento esistenziale. D’altro canto, così deve essere: ciascuno di noi, altrimenti, si limiterebbe a sedersi e ad attendere, rinunciando – con buona pace dell’arbitrio e della volontà – a vivere, mentre ognuno è se stesso – cioè differente dagli altri – proprio in quanto portatore di una propria e singolare visione del destino suo e di quello del mondo.
L’uomo sogna, detto in altri termini, e sogna sempre in grande, un po’ perché tanto non costa niente, un po’ perché guardare oltre gli è indispensabile per illudersi di sfuggire all’incalzante avanzare della pallina, di poter procrastinare quel momento. Sono sveglio ormai da qualche ora e, in testa, mi ritornano continuamente alcuni versi di una canzone contenuta nel nuovo album di Vecchioni, un brano asciutto e minimale che – forse perché molto intimo – non compare nella scaletta del concerto che l’artista milanese, da qualche giorno, sta portando in giro per il Paese:


«[…]però ricordami nei giorni
quando, nel computo degli anni,
ero nell’angolo, battuto,
simile a un pugile suonato;
quando da te mi nascondevo
e, per non vivere, bevevo:
un’armatura da gigante
e, dentro, un piccolo guerriero
che non aveva direzione,
che non vedeva porto o mare,
che non aveva strada o cielo
dove potersi arrampicare.
E tu ricordami com’ero,
per i miei sbagli senza scuse,
per la mia infanzia di pensiero,
le mie finestre sempre chiuse[…]»;

e ancora:


«[…]Ricorda tutte le manie
di quel cialtrone che io sono,
le indecifrabili ironie
e non ho chiesto mai perdono;
ricorda quando ti ho perduto,
ricorda quando son caduto,
ricorda quando mi hai tenuto
appeso al mondo con un dito[…]»,


parole che dedicherei a mio padre, chiedendogli – ora che non è più qui (e, si badi, dico “Non è più qui”, non “Non c’è più”) – di ricordarsi di me, di ricordarmi – ovunque lui sia – proprio per queste piccole-grandi cose. Sono sveglio – dicevo – ormai da qualche ora e – da almeno venti minuti, se non di più – mi sto lasciando andare a questo sfogo: perché? Non c’è un motivo preciso: molto probabilmente, infatti, non ce n’è uno solo e, anzi, son talmente tanti che mettersi a contarli – e a spiegarli ad uno ad uno – richiederebbe troppo tempo e la forza – che ora mi manca – di, per così dire , tornare sui miei passi , su un percorso che – in segreto ed in silenzio – ho già affrontato e che sa solo il destino se, un giorno, sarò nelle condizioni di esporre pubblicamente, cosa – questa – che, peraltro, non dipende soltanto dalla mia volontà.
Ma, ed ecco ciò che conta, quel percorso mi ha portato ad acquisire ancor più consapevolezza – qualora fosse necessario – della veridicità della considerazione dalla quale questa riflessione ha preso le mosse: siamo birilli. Vedete, noi poeti ci perdiamo sovente, e volentieri, nei meandri di elucubrazioni mentali come questa: magari, siamo capaci di star lì a parlarne e a ragionarci sopra per ore, semplicemente per catturare e affascinare il pubblico, perché ci piace vedere le vostre facce meravigliate del fatto che noi si riesca ad arrivare per davvero là dove, per paura, voi nemmeno vi avventurate.
Però…, sì…, però – quando la cosa ci riguarda direttamente o comunque ci tocca da vicino – allora anche noi diventiamo pudichi, allora il giochino (stronzi, che altro non siamo) ci piace un po’ meno, anche perché scopriamo – da par nostro – che non è poi così semplice e che, in fin dei conti, avere quella capacità di scavarsi dentro che voi tanto ci invidiate, lungi dall’essere una fortuna, ha – vista ad occhio nudo – tutte le sembianze e le fattezze di un'ulteriore – non richiesta, non cercata e non voluta – sfiga!

Matteo Sabbatani

mercoledì 13 novembre 2013

Buonanotte a tutti

Notte strana
in cui si affollano
i passati:
il remoto s'intreccia al prossimo
e all'imperfetto,
diventando futuro anteriore.
"Ed il presente?",
vi domanderete.
Inascoltato,
non fa altro
che chieder permesso.
Buonanotte a tutti

mercoledì 6 novembre 2013

«Io non appartengo più»: tutti i segreti, e i contenuti, del nuovo album di Roberto Vecchioni


Eh sì, gli perdoniamo pure quella brevissima autocitazione sul finire della penultima strofa del brano omonimo dell’album, quel «Io volevo ed eran voli» che fu il titolo, qualche anno fa, di una raccolta di poesie data alle stampe per sostenere una giusta causa; e lo facciamo – gliela perdoniamo, cioè – mossi non già da permissivismo, manierismo o magnanimità (non amiamo annoverarci tra quelli che, “siccome lo ha scritto – o lo ha detto – il prof., allora è bello o è giusto a prescindere) ma perché lì – in quella canzone – e, a maggior ragione, lì – alla fine dell’album – quel verso acquisisce – a nostro giudizio, s’intende – il suo significato più pieno e pregnante.
Sì, perché questo «Io non appartengo più» di Roberto Vecchioni è un album in cui la dimensione privata e personale e quella pubblica, “sociale e politica” del cantautore si mescolano alla perfezione: il Professore, infatti, decide di rifugiarsi nell’amato umanesimo in cui il silenzio è l’insieme d’ogni voce, ergendolo ad ultimo baluardo, ad ultima, strenua ed estrema difesa nei confronti di una società – quella contemporanea e postmoderna – che, se si vuole anche paradossalmente, ha finito – assumendo e subendo passivamente i modelli imposti da quei mass media che paiono capaci di propinarci soltanto un inventario sempre mutevole di suppellettili – per ritrovarsi imbrigliata nell’eterno castigo di un pianto antico, rinunziando di fatto – anche su un piano individuale – a qualsiasi autonomia di scelta.
Questa, in altri termini, è una società che – in preda com’è ad un effetto domino apparentemente auto poietico e inopinatamente autoreferenziale – si regge sul falso mito dell’uomo indomito e procede a tentoni, lasciandosi abbagliare da quest’ultimo – col suo portato di finte scaramucce e contrapposizioni sterili e prive di contenuto – come se, appunto, Sofocle e il suo Edipo a colono non fossero mai esistiti, come se non esistesse il libero arbitrio, come se – dal quattrocentouno avanti cristo ad oggi – nulla fosse accaduto, come se il rapporto uomo Dio – o, se si preferisce, uomo destino – fosse, ora come allora, unidirezionale ed univoco.
Ma così non è e, anzi, Dio – che, nel solco della più consolidata poetica vecchioniana, consapevole di avere comunque l’ultima parola, continua a giocare a nascondino con gli uomini – si può pure dribblare con una finta, tale e tanto è il dubbio che non sia che un refuso grammaticale di un alfabeto sociale che – ben lungi dal riscoprire il senso effettivo delle parole ed il loro corretto utilizzo – condanna l’individuo ad un solipsismo cibernetico che si estrinseca in relazioni eminentemente virtuali, con buona pace – sembra dire il Nostro – di quell’antico sogno di eguaglianza ed equità che proprio in Grecia vide gli albori e del quale, invece, l’attuale declinazione della democrazia sembra voler far strame, impegnata com’è ad inseguire e a postulare – nella migliore delle ipotesi – una concezione meramente funzionalista del rapporto uomo società (il pensiero orizzontale) e/o ad incunearsi in sentieri populistici e demagogici (la democrazia totale). Ecco, dunque, perché e a cosa il “poetastro” – come lui stesso si definisce – non appartiene più; ecco, allora, che – rifuggendo e rigettando, anche dal punto di vista formale (ovvero stilistico e narrativo), schematismi e ortodossie – egli ci invita a riappropriarci della considerazione per cui il futuro si costruisce solo con la consapevolezza e la conoscenza di ciò che è stato, poiché:

«[…]in questo solitario viaggio
di paura e di coraggio,
non esiste mai un addio[…]»
e
«perché il passato è lì davanti
e la tua vita è quel che senti
e che nessuno ruberà»,

come canta il trionfatore di Sanremo duemilaundici in “Così si va”, brano in cui – peraltro – il titolo si fa anafora, figura retorica a cui l’artista ricorre sovente in questo disco, come a voler fissare – aprendo più strofe col medesimo verso – l’importanza di un concetto. Già, perché questa, a ben guardare, è un’epoca in cui – dopo che l’occidente, con la scusa di doversi disfare delle ideologie, ha gettato alle ortiche anche le idee – di concetti fissi – cioè di paradigmi in grado di offrire una lettura della realtà, una prospettiva – non ce ne sono più: anche Vecchioni, pertanto, veste i panni del disilluso e scorato capitano di una nave a bordo della quale una ciurma impaurita e renitente vaga, senza meta, in balia di un mare che, imperterrito, continua ad incresparsi di onde; in altri termini, oggi, è come se quei segni con la matita rossa che – siccome tanto la mappa non si faceva disegnare – nel settantasei non servivano, fossero divenuti – in un gioco di climax crescenti che quasi si sovrappongono l’un l’altro – una volta celeste colma di stelle così sparpagliate, sbracate, stralunate, perdute e miserabili da non riuscire nemmeno ad indicare l’orizzonte, a dare un senso compiuto, una rotta precisa alla navigazione.
Dunque, cosa resta? Come reagire, come uscire da questa vacuità di fondo?
Per il cantautore meneghino, il conto è presto fatto e, per fortuna, non è a saldo zero: a lui, infatti, non importa un fico secco – un domani – di passare alla storia, d’essere ricordato per quel che scrive ed avrà scritto, per tutte quelle parole – cioè – che han fatto piangere, sognare e vincere chi solitamente perde; no, colui che – a colpi di canzoni e, appunto, parole – ha messo all’angolo, fatto impallidire, stordito, massacrato, sputtanato e fatto fuggire persino il dolore dal ring della vita, colui che ha compreso la netta superiorità dell’uomo rispetto al dolore medesimo, vuole essere ricordato solo per le sue manie, le sue cialtronerie, le sue indecifrabili ironie.
Intanto, però – proprio perché a nessuno è concesso, e nessuno si può concedere di sua sponte, il lusso di giocare a rimpiattino con un tempo che è sempre meno di quel che si pensa – è perfettamente inutile perderne troppo a rincorrere le miserie immobili di questa esistenza: meglio – allora – innamorarsi dell’amore, lasciarsi precedere, indicare la strada e condurre per mano dalle nipotine, insegnando loro a diffidare delle apparenze e a non temere le differenze; meglio tentare di ritrovare – tra i versi della poetessa polacca, premio Nobel per la letteratura nel 1996, Wisława Szymborska, recentemente scomparsa – la sorpresa del mondo, la magia d’essere vivo; meglio giocare sì – ma di sponda – con Borges, cercando di scoprire il miracolo segreto insito in quel giocattolo di vetro che è la vita; meglio, da ultimo – nel ricordo di Franca Rame – prendere esempio dalle donne, tutte le donne – dalla matita di Dio, madre Teresa di Calcutta, a Rosa Luxemburg, dalla scrittrice francese Simone De Beauvoir (Parigi, 1908-1986) alla più dedita delle infermiere, dalle contadine alle studentesse – per imparare davvero il mestiere d’esser uomini.

Matteo Sabbatani

domenica 6 ottobre 2013

Roberto Vecchioni, da Fazio, spiega perchè «...non appartiene più...»

Disponibile in tutti i negozi di dischi dall'8 ottobre 2013
Io non appartengo più
(R. Vecchioni)

Io non appartengo più
alle cose del mio tempo;
non mi riconosco più,
lì, nascosto dietro un canto:
non mi basta nemmeno il cuore
per giustificare, capire,
sentire, immaginare;
non mi basta la forza degli occhi
per voltarmi e non guardare.
Io non appartengo più,
viaggio come un clandestino
di una nave senza rotta
già segnata dal destino;
io non appartengo più
ai borghesi, gli inciuciai,
le banche e ai cazzi in culo
e, mi scuso,
ma c'ho pure il dubbio che
sia perfino Dio un refuso.
Sono sveglio, dentro un sonno
di totale indifferenza,
che persino tra le gambe
mi si è persa la pazienza;
io non appartengo al tempo
del delirio digitale,
del pensiero orizzontale,
di democrazia totale.
Appartengo a un altro tempo,
scritto sopra le mie dita
con i segni di chitarra
che mi rigano la vita;
io l'ho vista la bellezza
e ce l'ho stampata in cuore,
imbranata giovinezza
a ogni nuovo, antico amore.
Io non appartengo più:
mi fa ridere, lo ammetto,
ma - vi giuro - non lo faccio
per malinconia o dispetto;
non lo dico per stanchezza,
al calar del sipario su spettatori immaginari:
sono gli uomini la stizza,
sono i loro dtupidari.
Così corrono ad oriente
e non c'è stella cometa,
e moltiplicano il niente
per chiamarlo ancora vita,
come chi ha dimenticato,
come chi non ha provato,
come chi si è sorpassato,
non si è visto e ha continuato.
Io non appartengo a un tempo
che non mi ha insegnato niente,
tranne che puoi esser uomo 
ma non diventare gente;
io volevo, ed eran voli
di uno sparso, antico sogno,
per non rimanere soli,
accecati nell'abbaglio.
Io non appartengo e lascio
lo spiraglio alla mia porta:
solo, quando vieni,
fallo con l'amore di una volta

martedì 17 settembre 2013

E poi



E poi,
poi ci son quelli «di stretta osservanza»,
per così dire,
che però, a volte,
non voglion capire
come una danza può anche finire;
e poi,
poi ci son quelli che conosci tu
e che davvero non capisci più:
i “lor signori” che han senno e talento,
quindi van sempre dove porta il vento;
e poi,
poi ci son quelli così come noi:
recalcitranti come muli o buoi,
non è che amino le nostalgie,
ma voglion battere le nuove vie
solo se sanno di andare in un posto
dove la massa non va ad ogni costo;
perché, per vincer, ci son molte strade
e non è detto che quelle scoscese,
oggi o domani, sian prive d’insidie:
soltanto chi non accampa pretese
può veramente schivare le invidie;
soltanto chi sa davvero di sé
può far finta di non esser com’è.
Se specchi e luci ti fanno narciso,
spera che gli altri non vedano il viso
che ti porti addosso:
non so se lo sguardo sarebbe commosso.

mercoledì 31 luglio 2013

Presunzioni di un poeta





… E ora cosa resta di me, o meglio, di un orgoglio – il mio – ferito e “ricucito” così tante volte che nemmeno lui stesso rammenta quale fu il motivo del suo primo sanguinamento?
Qui seduto, scrivo, butto giù parole dotate sì di un minimo di senno e razionalità, ma dettate comunque dall’impeto, frutto – cioè – di quello che qualcuno ha definito “Flusso di coscienza”, con buona pace – forse – proprio di quest’ultima.
Quasi non s’ode – attorno – alcun rumore, cosa che mi agevola ed accompagna il formarsi – appena abbozzato – di questo sentiero. No, non è d’uopo domandare ad un poeta come e perché – volentieri – si lasci cullare dal silenzio: potrebbe rispondere che, al mondo, non è possibile – e, a ben guardare, neppure importante e meno che mai necessario – che tutti capiscano tutto e, siccome – poscia – qualcuno potrebbe anche offendersi per una simile reazione, meglio evitare…!
Si prenda puramente atto della cosa e, dunque, ci si limiti al sottile piacere dell’identificazione di se stessi in ciò che egli scrive o dice.
Ben altro, lo ammetto, dovrei adoperarmi a fare, lo so, ma – ignorando, non per scelta, financo la natura concreta e l’oggetto di questo ipotetico “altro” – m’acconcio a dar libero sfogo all’estro mio – nonché a quella psiche che ne è madre e che sempre m’appartiene – dedicandomi a ciò che più mi piace e meglio viene.
Mistero non c’è, né ho mai fatto – per me stesso e per nessuno – del mio amor per la scrittura, la parola, il linguaggio e le infinite trame che questi, nel loro simultaneo e multiforme combinarsi, possono ordire, però – chissà perché – leggo, ogni volta, stupore e meraviglia negli occhi di color che prendon atto di codesta  inclinazione: ebbene,  più il pubblico “stupisce” e trasale, più e con maggior lena – a bella posta – io m’arrampico sul senso delle cose e lo complico, lo dico in modo complesso, articolato, sottile, sottinteso, metaforico, dissimulato, e sapete perché? Perché, ogni tanto, mi piace far notare, far spiccare anche le differenze più vere e reali, quelle che – ad occhio nudo – non si vedono e che mi fan godere dell’essere tra voi, pur nella vostra più cieca – e perfino ostentata – ignoranza.
Matteo Sabbatani

giovedì 6 giugno 2013

Il peso dei ricordi

Non è quel che resta a far paura,
è quel che non c'è più a mancare:
il peso dei ricordi
non sta nel averli vissuti,
o nel loro esssere andati,
o nel fatto che,
chissà poi perchè,
belli o brutti che siano,
taluni solo a te
vengono in mente,
e non può che essere così;
no, il peso dei ricordi
non è nella scia
che inevitabilmente lasciano,
nel profumo che ora emanano le cose
che li han visti
diventar realtà...;
no, il peso dei ricordi
ha un tonfo sordo ed incalzante,
continuo, perpetuo, assillante,
come se una voce stridula dicesse:
"Vedi, sono qui,
sono ancora qui"!
Il peso dei ricordi,
a guardar bene,
è un peso che forse non c'è,
non esiste in natura
perchè, se non lo avessi,
se non lo sentissi,
non sapresti nemmeno chi sei.


(Matteo Sabbatani)

mercoledì 5 giugno 2013

A chi so io

Deliri,
anche di impotenza;
strali,
anche alla luna
e al sole,
alla loro ingombrante presenza:
di parole,
e per fortuna,
non ne mancan quasi mai
per descrivere quei guai
che a noi sembran tanto grossi
e che, in ver, son paradossi
d'una vita troppo agiata
per badare a quel che conta.
Sconsiderate considerazioni,
sproloqui,
minacce velate
e poi luoghi comuni:
va a vele spiegate 
la barca dell'invidia,
di chi parla e nemmen sa
dove sta la verità.
Già, è pur vero,
son felice
che non cambi la cornice
nella qual sta un certo quadro,
però no, non sono un ladro,
nè millanto, da impostore,
le certezze che non ho;
però io sono un signore:
mai e poi mai m'abbasserò
a pretender nulla in cambio
del sostegno ad un'idea.
A chi urla contro il vento
sol perchè non ha le palle
per sbollire un suo tormento,
posso qui ben consigliare
un po' di vacanza al mare!
(Matteo Sabbatani)

lunedì 4 febbraio 2013

Roberto Vecchioni inizia l’avventura di Amici: "Come sempre al centro della mia vita i ragazzi e la musica e le parole..."


“La cosa più importante nella vita di un uomo è avere tanti amori.
E io, alla soglia dei settant’anni posso dire di averne avuti tanti, perciò  sono un uomo fortunato.
Tra i più importanti, tra quelli sempre al centro della mia vita, ci sono stati i ragazzi e la musica e le parole. E le parole nella musica.
Oggi Maria De Filippi mi regala l’opportunità di mettere tutte queste cose insieme: parlare ai giovani delle parole nella musica.
Di perché le une e non le altre, di perché in quel momento e non in un altro.
E di farlo, spero, attraverso gli allievi di ‘Amici’ anche per tanti altri ragazzi che hanno voglia di ascoltare come ogni traccia che l’uomo lascia dietro di sé sia comunque cultura.
Inizio quest’avventura con grande emozione, grato a Maria, alla sua grande intelligenza e professionalità.”
 
Roberto Vecchioni


L’impresa, caro Roberto, è a dir poco ardua, anche – se non soprattutto – per il contesto e per il format in cui ti troverai ad operare, ma penso tu ne sia perfettamente e pienamente consapevole.
Non nego di avere qualche perplessità in merito a questa avventura: per averlo più volte visto e vissuto in prima persona, infatti, so molto bene quanto riesci a dare in situazioni a te confacenti e temo che questa non lo sia.
Temo, in altri termini, tu ti possa ritrovare a dover scendere a compromessi non di poco conto col tuo stesso modo di essere, con “la tua natura”, quella coerenza che sempre cerchi e dimostri nei fatti e nelle cose.
L’intento, stando a quanto hai dichiarato, è alto e nobile: speriamo ti sia consentito di perseguirlo. Auguri!
Con l’affetto, la stima e la gratitudine di sempre,
Matteo Sabbatani
 
Caro Matteo, grazie per la tua osservazione, soprattutto perché manifesta grande stima, amicizia e affetto nei miei confronti. Comprendo i tuoi dubbi, e non ti posso negare che anch'io ho riflettuto a lungo prima di accettare l'invito, però è altrettanto importante, nella vita di tutti i giorni come in un percorso artistico, crederci e provarci, perché non ho mai accettato passivamente le situazioni e i luoghi comuni, ho voluto sempre metterci la mano, provare (nel mio piccolo) a cambiarle. Non lo so quanto resterà di me ai ragazzi che partecipano alla trasmissione o a quelli che la seguono da casa, però in questi primi giorni di avventura ad Amici ho avuto tanti messaggi, tanti riscontri proprio dai giovani. Credo, quantomeno, di aver destato la loro curiosità, come di aver posizionato un punto di domanda nei loro pensieri. Se così è, se così sarà lungo questo percorso, avrò, anzi avremo, gettato un seme. Magari piccolo, ma un seme. Chissà, magari in futuro loro sapranno farlo germogliare. E tutto ciò è già importante. Grazie ancora del tuo interessamento, con reciproco grande affetto,
Roberto Vecchioni 


mercoledì 30 gennaio 2013

Cosa, quando, chi e soprattutto perchè...


Questa stanzetta virtuale (avrete notato che mi piace chiamarla così) è “casa mia”, lo so, eppure – ogni volta – mi ritrovo ad entrarvi – per così dire – in punta di piedi, quasi come se temessi di offendere, di metter becco in faccende non mie, in cose che non mi riguardano.
Il gennaio del 2013 – ora lo posso dire con piena consapevolezza e cognizione di causa – è stato, per certi versi, un mese assurdo e surreale, ammesso che mi sia concesso di esprimermi in questi termini: sul lavoro, nessuna novità e – anzi – sembra che tutto e tutti siano fermi, in attesa di non si sa bene cosa, quando, chi e  soprattutto  perché.
Però…, sì…, però – forse – in periodo elettorale e pre-elettorale è sempre così; però…, sì…, però – forse – sono io che la vedo in questo modo; però…, sì…, però – forse – è semplicemente l’ennesima dimostrazione che non sono adatto, non fa per me star su questa barca, solcare questo mare: intendiamoci, non è che non sappia leggere le carte nautiche o seguire la rotta – magari cercando di orientarla un po’ – ma il sottoscritto si ostina – povero illuso – a  considerare il mare come la distanza – tutt’altro che incolmabile – tra due porti, tra due approdi e – perché no – tra una realtà e un sogno ipoteticamente realizzabile.
Sul piano personale, poi, non ne parliamo: dire che sto attraversando una fase di apatia pressoché totale è un eufemismo, o meglio, non rende l’idea.
Sì, perché – a ben guardare – la mia non è proprio apatia; piuttosto – tornando alla metafora del mare e della barca – mi sembra sempre di remare controvento e controcorrente, ma non per volontà, non per scelta: so bene – molto bene, credetemi – quel che vorrei e quel che sto cercando (di recente – a differenza che in passato – ho anche preso, almeno credo, a scrollarmi di dosso qualche remora eccessiva nel rapporto con gli altri e, in particolare, con le donne), tuttavia – quando non ci pensa la vita a ricordarmi che ho un handicap – sono proprio loro, le donne, a far 'si ch’io viva anche l’intelligenza, la cultura, il sapere come elementi ostativi nei loro confronti, come qualcosa che – una volta di più – mi rende diverso e “difficile”.
Ora, mi chiedo:
“Possibile che non abbia mai capito niente?”
Sono convinto – e lo sono sempre stato, al punto da incentrare la mia esistenza su questo – che, non potendo contare sulla prestanza fisica, l’unica carta vincente che uno come me può giocarsi al cospetto del mondo sia la testa e che, dunque, le uniche armi in mio possesso – aborrendo il pietismo – siano, oltre all’intelligenza, l’ironia e il sarcasmo.
Se poi mi si dice, o mi si fa intendere, che così non va – perché, che so io, posso mettere in soggezione – allora…!

Matteo Sabbatani     

lunedì 28 gennaio 2013

Roberto Vecchioni: "Ho conosciuto il dolore"


Ho conosciuto il dolore 
(di persona, s’intende) 
e lui mi ha conosciuto:
siamo amici da sempre,
io non l’ho mai perduto; 
lui tanto meno, 
che anzi si sente come finito 
se, per un giorno solo, 
non mi vede o mi sente.
Ho conosciuto il dolore 
e mi è sembrato ridicolo,
quando gli dò di gomito,
quando gli dico in faccia: 
”Ma a chi vuoi far paura?” 
Ho conosciuto il dolore: 
era il figlio malato, 
la ragazza perduta all’orizzonte, 
il sogno svanito, 
la miseria dopo l’avventura;
era il brigante all’angolo 
che mi chiedeva la vita; 
era il presuntuoso tumore che mi porto dentro 
da una cellula impazzita; 
era Dio, che non c’era 
e giurava, ah se giurava, di esserci; 
la sconfitta patita, 
l’indifferenza del mondo alla fame, 
alla povertà, alla fatica; 
l’ho conosciuto 
e l’ho preso a colpi di canzoni e parole 
da farlo tremare, 
da farlo impallidire, 
da farlo tornare all’angolo,
pieno di botte, 
che nemmeno il suo secondo 
sapeva più come farlo di nuovo salire sul ring, 
continuare a boxare.
E, un giorno, l'ho fermato in un bar,
che neanche lo conosceva la gente;
l’ho fermato per dirgli: 
“Con me non puoi niente!” 
Ho conosciuto il dolore 
ed ho avuto pietà di lui, 
della sua solitudine, 
di questo cavolo di suo mestiere; 
l’ho guardato negli occhi,
che sono voragini e strappi 
di sogni infranti: 
“Ti vuoi fermare un momento?”, gli ho chiesto, 
”Ti vuoi sedere? 
Vieni con me, 
andiamo insieme a bere. 
Hai fatto di tutto 
per disarmarmi la vita 
e non sai, non puoi sapere 
che mi passi come un’ombra sottile sfiorente, 
appena-appena toccante, 
e non hai vie d’uscita 
perché, nel cuore appreso, 
in questo attendere
anche in un solo attimo, 
l’emozione di amici che partono, 
figli che nascono, 
sogni che corrono nel mio presente, 
io sono vivo 
e tu, mio dolore, 
non conti un cazzo di niente”. 

 Roberto Vecchioni ospite a RadioItaliaLive/VideoItaliaLive

mercoledì 23 gennaio 2013

"SECONDO ME LA DONNA" di Giorgio Gaber

 
Per non dimenticare il grande artista, ma non solo...

«Secondo me, la donna e l’uomo sono destinati a diventare eguali: in questa nostra epoca, la civiltà s’è data un gran daffare per attenuare certe differenze che erano causa di profonda ingiustizia; c’è stato un graduale avvicinamento nel modo di comportarsi, di sentire, di pensare – insomma, di vivere – fino alla tanto sospirata parità.
Però, secondo me – all’inizio di tutto – c’è sempre una donna.
Secondo me, la donna è donna da subito; l’uomo è uomo a volte prima, a volte dopo, a volte mai.
Secondo me, una donna è coinvolta sessualmente in tutte le vicende della vita, a volte persino nell’amore: secondo me, una donna innamorata imbellisce; un uomo rincoglionisce.
Secondo me, in un salotto – quando non c’è neanche una donna – è come recitare in un teatro vuoto; se invece non c’è neanche un uomo, tra le donne si crea una complice atmosfera di pace: appena arriva un uomo, è la guerra!
Secondo me, un uomo che dice di una donna:
“Quella lì la dà via” meriterebbe che, a lui, le donne non la dessero proprio mai!
Secondo me, una donna che dice – ad un uomo con cui sta facendo l’amore:
“Come con te, con nessuno!” – andrebbe comunque arrestata per falsa testimonianza!
Secondo me, per una donna che non ha fortuna in amore, non si può usare il termine “Sfigata”!
Secondo me, gli uomini si sono sempre occupati del potere sulle cose; le donne, del potere sulle persone…: questa è seria!
Secondo me, le donne – quando ci scelgono – non amano proprio noi (forse è una proiezione, un sogno, un’immagine che hanno dentro) ma – quando ci lasciano – siamo proprio noi quelli che non amano più!
Secondo me, una donna che si offre sessualmente ad un uomo ed è respinta rimane sconcertata, non ci può credere e il suo primo pensiero è che lui sia omosessuale, ma – in genere – questa è una versione che non regge, e allora pensa:
“Eh già, lui si difende: ha paura di essere troppo coinvolto emotivamente, oppure si sente bloccato dalla eccessiva eccitazione”! Cioè, il fatto che lei possa non piacere è un’ipotesi che non può assolutamente prendere in considerazione!
“Donna, l’angelo ingannatore!”: lo ha detto Baudelaire;
“Donna, il più bel fiore del giardino”: lo ha detto Goethe;
“Donna, femmina maliarda”: lo ha detto Shakespeare;
“Donna, sei tutta la mia vita”: lo ha detto un mio amico ginecologo!
Secondo me, la donna e l’uomo sono destinati a rimanere assolutamente differenti e – contrariamente a molti – io credo che sia necessario mantenerle, se non addirittura esaltarle, queste differenze, perché è proprio da questo incontro-scontro tra un uomo e una donna che muove l’universo intero.
All’universo non glie ne importa niente dei Popoli e delle Nazioni: l’universo sa soltanto che – senza due corpi differenti e due pensieri differenti – non c’è futuro!»
G. Gaber