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mercoledì 14 maggio 2014

«Com'era e com'è»

Da qualche giorno a questa parte – per chissà quale ancestrale, misterioso motivo – ci ritroviamo spesso, improvvisamente, catapultati nel labirintici sentieri del «com’era e com’è», un giochino assurdo – e, per certi versi, anche alienante – che, è vero, poggiato sul vizio di un’inutilità di fondo, lascia il tempo che trova – tanto per dirla con un luogo comune – ma al quale non riusciamo – e forse, masochisticamente parlando, nemmeno vogliamo – sfuggire.
Niente e nessuno – detto per inciso – impone a chi legge di seguire – né, tanto meno, condividere – questa nostra libera scelta, s’intende e, dunque, vi invitiamo caldamente – se avete di meglio da fare – a procedere spediti nel dipanare una matassa, quella della vostra quotidianità, che – ne siamo certi – si compone di urgenze molto più pregnanti di quanto non sia ogni tentativo – peraltro già in partenza vano – di raccapezzarvi tra queste elucubrazioni nostalgiche e stantie.
Per quanto ci riguarda, però, è diverso; per quanto ci riguarda, però – ovverosia per natura e inclinazione personale – non possiamo esimerci dall’accettare, ogni volta, la sfida e, provando a percorrere senza timore quegli stessi sentieri, constatare amaramente com’era una volta – quando c’erano persino le idee, quelle che ti formavi vivendo come e dove vivevi e che, agli occhi del mondo, spiegavano chi eri e che, a te, davano un’identità e, udite-udite, un senso di appartenenza – e, invece, com’è adesso – che non si vede più neppure l’ombra di un’idea degna di essere intesa come tale, che tu sei tu (comunque e sempre) e di quel che pensa il mondo, sempre ammesso che pensi, è inutile parlarne e/o tenerne conto.
Eppure – ed è forse persino ovvio sia così – pare che tutto continui comunque, sia pur sotto insegne e secondo logiche dettate dalla demagogia e da un’irrefrenabile esigenza di primazia individuale: all’occasione – quindi – il mero tornaconto privato si ammanta col velo d’un presunto, ipotetico, futuro e futuribile pubblico beneficio.
In fondo – pensiamoci – dov’è la novità?
Già, stiamo – molto probabilmente – giocando col fuoco, lo confessiamo e – con la stessa onestà intellettuale – ammettiamo di essere perfettamente consapevoli che – se ci bruciassimo – la colpa sarebbe solo nostra, ma il labirinto del «com’era e com’è» ha una sola via d’uscita.
Dunque, chi dovesse – per avventura – incrociare lo sguardo imbronciato e deluso di una signora coerenza legittimamente in fuga – per favore – la fermi e la coccoli a dovere: qualcuno qui, disperatamente, la implora di tornare.


Matteo Sabbatani

venerdì 9 maggio 2014

Qui, ora, oppure...

E dire che pensavo – povero illuso, che altro non sono – che, in ogni cosa, una quota del destino fosse – per così dire – da costruire autonomamente; e dire che pensavo che farlo fosse un dovere, prima ancora – e piuttosto – che una mera possibilità.
Invece – e, lasciatemelo dire, purtroppo – no, non è così; no, non lo è, perché – se è vero che, come ho precedentemente cercato di argomentare anche in questa sede, il mondo è fondamentalmente disarmonico – è parimenti inconfutabile che, benché a regnare e a farla da padrona sia la casualità, esiste una sorta di ordine ontologico che – in qualche misura – indirizza e guida la casualità medesima, sia pur determinando – per paradosso – il continuo persistere del massimo grado di contingenza della – e, al contempo, nella – realtà.
Sociologismi sterili?
I meno avveduti – ovvero, ahimè, la stragrande maggioranza dei miei simili – etichettano in tal modo, ne sono certo, queste dissertazioni, salvo poi – quando la sorte decide di mostrarsi nuda e cruda per com’è – ritrovarsi basiti, interdetti e incapaci di capire: ecco, allora, che – sovente – sconcerto e disperazione prendono il sopravvento; ecco che ci si scopre ad imprecare contro il destino cinico e baro, mentre lui – il destino, appunto – fa solo il suo mestiere, né più e né meno.
Vedete, il vivere – quotidiano e indispensabile accidente di ogni specie, ivi compresa quella umana – elargisce porte in faccia e spalanca portoni secondo un equilibrio inintelligibile: a noi, stante ciò, basta – e deve per forza bastare – la consapevolezza che, al giorno d’oggi, sia il puro e semplice intento della mediazione tra interessi differenti, sia – tanto più – le strutture ad essa eventualmente deputate sono amenità superflue; lo sono, peraltro, non già per loro intima natura, ma perché:
«Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole», come Dante fa esclamare a Virgilio. Sicché domandare – ci insegnano i vati – è perfettamente inutile.
E dire…, ma niente: d’altronde, che c’è da dire?
Chi crede può aggrapparsi, ad esempio, alle parole di Giovanni vigesimo terzo, recentemente proclamato Santo:
«Di cielo siamo fatti» – disse – «sostiamo qui per un poco e poi riprendiamo il viaggio».
Agli altri – a quelli che, come il sottoscritto, si limitano a prender atto del qui ed ora – non resta che sperare di essere incappati in un clamoroso errore di calcolo.

Matteo Sabbatani