Sono,
questi, giorni così uggiosi e plumbei che tutto sembra ammantarsi di un
malinconico senso di ineluttabilità delle cose, come se – in vero – a noi non
fosse dato di avere parte alcuna neppure nella determinazione dei più banali
aspetti della nostra esiziale quotidianità.
Sarà
la preponderanza del grigio nei colori che mostra – in queste circostanze – il
cielo; sarà – ed è pur vero – che l’inverno è agli sgoccioli, ma la primavera è
ancora molto di là da venire; sarà quel che si vuole (perché ciascuno, in
definitiva, i conti li fa con la propria realtà), ma l’impressione è – per così
dire – quella «delle sabbie mobili»: la si respira nell’incipiente immobilità e
nell’apparente irreversibilità del tempo, nella sempre maggiore labilità del
confine tra valori e disvalori e nel fatto che i primi – cioè i valori – pare
siano, non solo e non tanto estremamente fungibili (cosa inquietante di per sé),
quanto aleatori e contingenti, figli del caso, del momento e – perché no –
financo della convenienza.
Sì,
vede nero il vostro «puerile scrivano», ma poco male: non è la prima volta che
accade e certamente – se questa è la china – non sarà l’ultima.
Torna,
dunque, la cupezza di quelli che – per uno che, immeritatamente, si fregia del
titolo di poeta – dovrebbero essere i tempi migliori: se sta bene, infatti, il
poeta non scrive.
Ad
ogni buon conto e al di là dei facili panegirici argomentativi, però, il
problema resta; e al suo cospetto – schiavo come sono del mio stato d’animo –
mi esimo volentieri dal proporre soluzioni, indicare possibili vie d’uscita o
quant’altro: in fondo – poiché si vuole che io stia sereno – la cosa non mi
compete, non spetta a me. È indubbio, tuttavia, che sarei veramente molto più
sereno se neppure mi tangesse…!