Pagine

venerdì 27 novembre 2015

Vuoto a perdere

Questo gran bisogno di pensare, a noi stessi e al mondo (perché i poeti sono tali se, e solo se, pensano a se stessi nel mondo), ci porta ad estraniarci dal resto, da tutto il resto.
Si badi, non c’è – a nostro modo di vedere, s’intende – alcuna contraddizione: dunque, il resto non è il mondo; il resto è – al contrario – tutto ciò che non influisce, che non ha ricadute, sulla quotidianità di tutti e di ciascuno.
Detta così – ce ne rendiamo perfettamente conto – potrebbe sembrare che il famoso “resto” includa e comprenda anche, se non addirittura essenzialmente, il “mondo interno” di ognuno di noi, cioè quella serie di sentimenti, sensazioni ed emozioni personali che fanno di un individuo quel che è.
Ma non esiste poeta che sia privo e/o che non curi – prima d’ogni altra cosa – il proprio mondo interiore: allora?
Allora, il resto sono – banalmente dette – le futilità, quella sterminata e variegatissima gamma di “quisquiglie e pinzillacchere”, come le chiamava il principe De Curtis, che pure riempiono l’esistenza di quanti – e sono sempre tantissimi – a pensare, ci si passi il gioco di parole, non ci pensano proprio
Sì, perché – vedete – poi c’è la vita, quella vera, e c’è chi – nella vita vera – a volte, si stanca di mediare, di fare il pendolo, il contrappeso, lo schermo, il parafulmine e – per tentare di capire – si rifugia nel pensiero, convinto com’è che occorra fare il possibile perché non abbia mai a spezzarsi il filo rosso che lega quel che siamo e quel che siamo stati; e poco male se ciò fa rima con cultura: tutto si può temere, tranne il sapere.
Può anche accadere, così, che – per puro amore del sapere – qualcuno, qualcuno che è comunque “del mestiere”, avverta l’esigenza – pazzo com’è – di continuare a domandarsi, e di cercare di scoprire, il perché delle cose, quasi come non potesse fare a meno di “girare attorno” ad un concetto, Dio, che – a seconda dei punti di vista – tutto spiega o è cagione di qualsivoglia interrogativo.
Ecco, questo gran bisogno di pensare è figlio, non già della rabbia, ma della delusione: non rimpiangiamo certo l’era delle ideologie, le quali – per quanto siano oggi vituperate e misconosciute – davano comunque un orizzonte di senso, ma ci sconvolge e ci inquieta non poco il vuoto assoluto ed assordante che le ha sostituite.


Matteo Sabbatani