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venerdì 25 novembre 2016

Sospeso

Resta,
come se il tempo si fosse fermato,
mesta,
la piena coscienza di quello che è stato,
e fa ressa, confonde
e non placa le onde
del mare silente
che, dentro, la mente
prova, disperatamente,
a contenere:
se fosse tempesta,
potrebbe passare,
ma l’aria di festa
che sembra regnare,
da sola, non basta
a impedire quest’asta
del bene e del male,
con me che sto in mezzo
e guardo le cose
stentare a cambiare.

mercoledì 26 ottobre 2016

Dinanzi al domani incombente





Questo essere in balia
tra diritto e nostalgia,
tra coscienza ed apatia,
se da agio di pensare,
di riflettere e sognare,
non conosce più il tempo del respiro,
del prender fiato,
il tempo del:
“Non vivo l’immediato”.
 No,
non è più opportuno ponderare,
ma non so come altro fare,
qual è il volo da spiccare,
l’orizzonte cui anelare,
nel rispetto di un me stesso
che ora qui, come un ossesso,
cerca solo di capire,
di chetare le sue ire,
di scoprir, per differenza,
cosa resta tra un’assenza
e il domani che ormai incombe.

mercoledì 27 luglio 2016

«Chi ha tempo non aspetti tempo»



Aria – o forse solo voglia – di festa, di ferie e – comunque – d’altro, d’altro che non sia – e cioè non somigli nemmeno lontanamente a, non abbia nulla a che spartire con – questo afosissimo e apatico tutto, che poi è niente, che si respira in ogni dove.

Già, fateci caso, non c’è nessuna differenza tra questa ed altre fine d’anno (ché, in vero, l’anno si chiude – ne siamo più che mai convinti – in queste ore e in questi giorni); già, fateci caso, siamo qui – esattamente come un anno fa e l’anno prima e quello prima ancora – a correr dietro al tempo perso, nel tentativo – che come sempre, in un modo o nell’altro, andrà a buon fine – di concludere cose lasciate – per mesi e da mesi – a metà, con la scusa che – tanto – di tempo ce n’era, ce ne sarebbe stato, ce ne sarà.

Sì, però ora – ora che la nostra testa è già sotto l’ombrellone – ci accorgiamo che di tempo non ce n’è, e le cose vanno fatte – ovviamente come si deve – prima di poterci andare davvero con la testa, e non solo con quella, sotto l’ombrellone: e allora?

E allora si corre, si corre e si suda – ben più di quanto l’estate, di per sé, non induca a fare, detto per inciso – perché?

Perché prima – quando il tempo c’era – avevamo freddo e, si sa, il freddo entra nelle ossa, rallenta movimenti e riflessi, smorza – purtroppo – anche l’arguzia, l’acume e la perspicacia: sicché, poscia, non è mica facile lavorare..!

È così, siamo perennemente meteoropatici – quindi tutt’altro che stacanovisti, ché le due cose van di pari passo – e sempre tesi a cercare qualcuno o qualcosa a cui addebitare il nostro lassismo, la nostra pervicace e volontaria inerzia, per poterci trincerare dietro un contrito, sconsolato, laconico, desolato, ma anche – ed anzi soprattutto – confortante ed auto assolutorio:

«Ah, se avessi avuto tempo…!»

Matteo Sabbatani

sabato 14 maggio 2016

«Nel buio, le mie colonne d'Ercole»...perché ci vuole davvero tanto, forse troppo, coraggio a stare sereni


Le espressioni “Coraggio” e “Stai sereno” – che oggigiorno sono molto in voga e sembrano andare per la maggiore – segnano simbolicamente quest’epoca contraddittoria ed evanescente, caratterizzata dal predominio dell’apparenza – anzi, meglio, della parvenza – sulla sostanza, dell’ottimismo – anche demagogicamente indotto – sul realismo, del “Detto” – che si vuole corrisponda automaticamente al “Fatto” – su un “taciuto” che però – e qui casca l’asino – non rima semplicemente col “Non fatto”, ma va piuttosto a braccetto con la volontà, più o meno esplicita, di “incardinare” e “incanalare” la pubblica discussione attorno a temi scelti ad arte che – di volta in volta – complice la sapiente padronanza dei meccanismi e delle tecniche proprie della comunicazione, si fanno assurgere a questioni d’importanza surrettiziamente vitale, onde evitare che si guardi al presente con obiettività. 
Allora, poco importa – essendo questa la china – se “Coraggio” e “Stai sereno” – per le ragioni di cui sopra – sono, ipso fatto, in antitesi: perché?
Perché si sa che – in nome del presunto, ipotetico,  probabile consenso – si può anche – ed anzi si deve – edulcorare la realtà, sproloquiando di miracolose e mirabolanti ripartenze e di altre affascinanti amenità che – per quanto possano, in vero, essere quasi surreali – servono comunque ad ammaliare, ad ammansire, a convincere “le masse” che le cose stanno cambiando in senso – s’intende – più che mai positivo; poi, la vita e le difficoltà quotidiane sono lì a dimostrare l’esatto contrario – e cioè che, nel migliore dei casi, tutto resta così com’è – ma è bello ascoltare le suadenti note del pifferaio magico di turno.
Dunque, come dicevano i Latini, “Mala tempora currunt”, anche se – o forse proprio perché – si fa di tutto per non pensare e non pensarci, per lasciarsi trasportare unicamente dal – e nel – “tempo-chronos”, come lo definivano i Greci, cioè in – e da – quel tempo che si conta in secondi, minuti, ore, giorni, mesi, stagioni, anni, lustri, decenni, secoli ed anche “secoli dei secoli”; e va da sé che – per mera pietà verso noi stessi – in  virtù delle cose già dette e di quelle che diremo, ci guardiamo bene dal chiosare il tutto con “l’Amen” di rito.
Già, cari signori, in quest’epoca mesta, bugiarda e funesta, il tempo-chronos – seppur stressato, “abusato”, oseremmo financo dire “stuprato”, piegato com’è a far da specchio ai mutevoli ed interessati capricci del contingente e dell’ovvio – la fa da padrone.
Questa, signori, è l’era del boh, dell’esaltazione speculativa del Nulla; è un’ora sbagliata e foriera di guai.
Ecco, ecco di che cosa parlano, che cosa raccontano i versi del nostro «Nel buio, le mie colonne d’Ercole» in uscita, per Bacchilega Editore, nel mese di maggio dell’anno duemila sedici, il trentanovesimo della nostra confusa esistenza. 
Ecco, parla del tempo – del tempo che fa la fronda e che, a furia di sfrondare, ti denuda – questa nostra raccolta di poesie impreziosita, in copertina, da uno splendido dipinto pensato e realizzato ad oc dall’amico Walter Di Piazza.
Sì, perché questo tempo impazzito non si lascia più scandire, né guardare in faccia e, anzi, sembra si diverta – per qualche recondita, misteriosa, insondabile ed incomprensibile ragione – a tentare di capovolgere la nostra barca; sì, perché pare proprio che le idee, persino le idee – al giorno d’oggi – non contino più un proverbiale fico secco e, meno che mai, possano servire a spiegare chi sei; sì, perché pare proprio che le idee – anche le idee – oggigiorno, non siano che “oggetti” manipolabili e fungibili a seconda delle convenienze, tanto manipolabili e tanto fungibili da aver perso qual si voglia consistenza: così, ad esempio, ciò che un dì si considerava nefasto e pericoloso diventa – d’incanto –  magnifico, fulgido, quasi perfetto, la migliore delle panacee possibili, e poco male se è – appunto – solo una panacea e se – come tale – rischia paradossalmente di aggravare la situazione.
Eccolo, dunque, il buio, quel buio figlio dell’incertezza e della labilità che – in quest’epoca – pare abbia la meglio su tutto e – in primis – sul pensiero, sull’umana capacità di discernere, distinguere, far sintesi, comprendere e comprendersi reciprocamente; ecco, eccolo il buoi che avvolge, ammanta, soffoca e uccide lo spirito critico di tutti e di ciascuno in nome – talvolta – di revanscismi sterili o dell’esaltazione della potenza fine a se stessa, di un leaderismo che confina col – e sconfina incontrollato nel – culto aprioristico della personalità; ecco, eccolo il buio in cui annaspa la nostra voglia, il nostro bisogno di amare ed essere amati – come uomini – così come siamo.
E allora? Allora succede che – di tanto in tanto – da due anni a questa parte, noi ci si ritrovi a scrivere, a tentare di mettere in versi il nostro crescente disagio, questo sentirci “non al passo”, “fuori dal tempo”, la nostra ostinata e pervicace volontà – posto che i tratti essenziali dell’assurda stagione che stiamo vivendo sono questi – di restare ai margini dell’osceno ballo in maschera cui si sta dando corso.
E allora? Allora accade che la nostra amica Sara – una di quelle che, davvero, ci conosce per come siamo, difetti non fisici compresi – convoli a giuste e improcrastinabili nozze, e noi siamo lì e – nell’emozione di sentirle dire “sì” – cominciamo a capire, a trovare il senso reale, l’ordine, la logica sottesa ai – e il filo rosso dei – versi che andiamo componendo.
Allora, cominciamo a capire: l’importante è sapere che ciò che ci unisce a Sara conta allo stesso modo per noi e per lei, a prescindere dall’assiduità con la quale ci si vede o ci si sente; ci rincuoriamo perché – in un batter di ciglia – si fa palese che lo stesso discorso vale per Barbara, Betta, Marika…, nonché per tutti quelli che ci hanno lasciato e non sono più accanto a noi, i quali – nella stessa misura e per lo stesso motivo – non ci abbandoneranno mai; si svela – in un lampo – il falso arcano per cui ci capita di pensare a Pierpaolo e alla sua Soverato – che è un po’ anche la nostra (tanto che torna in più di una lirica) – ogni volta che mettiamo, da soli, lo zucchero nel caffè; e l’anima – quest’anima, ad un tempo matrigna e testarda, protettiva e premurosa – ritrova il sorriso negli occhi e negli abbracci di due bimbi e di un ragazzo di vent’anni per i quali noi siamo – a prescindere – noi, per i quali zio Matteo è zio Matteo e basta, perché non c’è differenza tra l’uomo, il poeta e la persona, e perché:
«[…]di questi tempi, le colonne d’Ercole sono indispensabili e, così com’è vero che ognuno ha le proprie, voi siete – e sarete sempre – i pilastri delle mie[…]»

Matteo Sabbatani

Presentazione Sabato 28 maggio, ore 10.30, presso “Book city”, la Biblioteca della Scuola media Statale Luigi Orsini (Istituto comprensivo 7) via Antonio Vivaldi, 76
Libro acquistabile anche sul sito: www.bacchilegaeditore.it

lunedì 4 aprile 2016

Il nuovo libro di Roberto Vecchioni

In libreria, per Einaudi,

La vita che si ama, storie di felicità

il nuovo libro __ un romanzo epistolare __ di 
Roberto Vecchioni


Il libro:
E’ questo il suo libro più intimo e autobiografico. Il libro in cui l’idea stessa della vita e della felicità, il senso del rotolare dei giorni, trova forma di racconto.
Perché i momenti più belli o più intensi della nostra esistenza brillano nella memoria: sono luci che abbiamo dentro e che a un tratto sentiamo il bisogno di portare fuori. Magari per i nostri figli, e per tutti quelli che hanno voglia di ascoltare.
“Non si è felici nell’imperturbabilità, ma nell’attraversamento del vento e della tempesta”.
E’ inutile chiedersi cosa sia la felicità o come fare a raggiungerla scrive Roberto ai figli nella lettera che apre questo libro: la felicità non è una questione d’istanti, ma una presenza costante, che corre parallela a noi. Il problema è saperla intravvedere, imparando a non farci abbagliare.
Roberto Vecchioni ci conduce in un viaggio personale lungo quello che chiama il tempo verticale, uno spazio che tiene uniti tra loro passato presente e futuro, dove nulla si perde. D’altronde “la felicità non è un angolo acuto della vita o un logaritmo incalcolabile o la quadratura del cerchio: la felicità è la geometria stessa”.
Troviamo nel libro episodi bizzarri vissuti insieme ai suoi figli, episodi comici e drammatici della sua carriera di insegnante; dagli amori perduti o ritrovati fino a un ritratto vivo e passionale di suo padre Aldo. Ma ci sono anche le canzoni , squarci letterari, miti e un frammento di Saffo e la Casa sul Lago testimone di tanti momenti .
Roberto Vecchioni attinge alla propria biografia per costruire un vero e proprio manuale su come imbrigliare la felicità, senza farla scivolare via finché non diventa soltanto un ricordo.


mercoledì 16 marzo 2016

Riassunto senza prospettiva


Colei che nulla era
e colei che era tutto
si fondono nell’unica mancanza,
che è quella d’ogni sera,
e sondano, da anni, la distanza
del “C’era, ma non c’era”.
Il tempo, che continua a far la lepre
e appiccica i momenti che riscopre
all’anima vestita da parete,
mi insegna come “l’era delle fate””
non venga, quasi mai, vissuta “a rate”:
la mia, sempre che vi sia pur stata,
non è certo da oggi che è finita.
Rimuginare cosa si è sbagliato
rinfocola semplicemente il mito;
e dovrei dir: “Quello che è stato è stato”,
correre ancora verso l’infinito,
però mi par di non aver più fiato
e anche la voglia mostra un po’ la corda.
Così m’acconcio a un esistenza amorfa,
tarpo le ali ai sogni che ho di scorta
e che non ho la forza di inseguire.
Sol chi già sa, di poi, potrà capire
come e perché mi siedo, sì, sul fiume,
ma non ne scruto più neppure il corso:
mi tolgo, una per una, le mie piume,
mondandole financo dal rimorso.

venerdì 26 febbraio 2016

Tornare (Soverato - parte seconda)

Tornare, sì, vorrei tornare
e rivedere il cielo e il mare
che son sinonimo di libertà,
di “capodanno esistenziale”
per una vita da sempre a metà:
perché lì non s’indossano maschere
e nessuno ti chiede di vivere
come un altro diverso da te;
e, se non amicizia, cos’è
quello spendere tempo con me
o lasciarmi anche solo a pensare,
a guardarmi un po’ dentro e a e cercare
un appiglio per non naufragare
tra le somme, che son da tirare
e comunque non tornano mai,
e il bisogno che ho di respirare,
di chetare per qualche momento,
con l’aiuto – magari – del vento,
tutto il vostro trambusto, il vivai
e il fermento dei mille pollai
che pur riempiono quest’esistenza.
È l’istinto di sopravvivenza
a colmare, con versi e speranza,
questo fiume di tempo e distanza
che guardo, con molta inquietudine,
scorrere placido malgrado me,
mentre sorella solitudine
insinua il dubbio, che invero non c’è,
che questa voglia non sappia di sé
e sia frutto d’un mero capriccio,
di un desiderio falso e posticcio.
Mi pare inutile spiegare,
a lei che in quei giorni svanisce,
che l’esigenza di tornare
non muore o non s’assopisce.
Già,
spero davvero di tornare
e ritemprarmi sotto al sole
che, a picco e perpendicolare,
narciso, si specchia nel mare,
di posar lì la grande mole
d’elucubrazioni noiose
che è insita in tutte le cose

venerdì 5 febbraio 2016

Stagioni

Una vaga sensazione di indolenza permea e pervade le prime ore di questo venerdì cinque febbraio: l’epoca è quella che è e tutti – chi più, chi meno – ne subiamo il “fascino” – si fa per dire –malato e leggermente malinconico.
Quest’anno, per di più, pare proprio che l’inverno – meteorologicamente parlando – non voglia nemmeno venire, cosa che aiuta noi poeti – sempre in balia delle bizzarre e mutevoli stagioni dell’anima – a barcamenarci un po’ meglio nel “vivere pratico", anche se l’innata attitudine a fotografare il tempo – quello “antropologico”, s’intende – turba non poco i nostri sonni: cacofonie variamente assortite – disseminate ad arte nella quotidianità del Paese – mirano, infatti, ad edulcorare la realtà di tutti e di ciascuno, distogliendo l’attenzione generale dai problemi veri; e poco male se – un domani – ci si risvegliasse in un’era nella quale la partecipazione, “il farsi carico, il prendersi cura” fossero inutili orpelli, banali incombenze da espletare – a scadenze stabilite – in ossequio al rispetto delle regole formali.
Sommessamente, da umili e semplici osservatori delle italiche magagne quali siamo, ci permettiamo di ricordare che – solo pochi anni fa, quando sembrava spirare un altro vento (ma chissà se era poi tanto diverso da quello che soffia oggi) – in molti, anche a squarcia gola, cantavano e gridavano che:
«[…]questa maledetta notte
dovrà pur finire[…]».
Adesso, tutto si è sopito; adesso – per meglio dire – in tanti si sono assopiti, ma l’alba noi – sarà che siamo ipovedenti – non la vediamo ancora.

giovedì 4 febbraio 2016

Poveri cristi

E, sotto la nebbia opaca
che ammanta ogni cosa,
c’è l’anima mia che, sacra,
prudente e gelosa,
difende se stessa dal mondo:
si muove qualcosa
nel ventre viscoso e profondo
d’una realtà come questa,
che l’abito della festa
vuole indossarlo comunque.
Anche in un bagno di sangue,
osa danzar sulle punte:
senza guardarsi allo specchio,
tiene ben chiuso l’orecchio,
per cui quel rumore di fondo
non tange la sua voluttà
e quelli che chiedon pietà
possono solo annaspare,
privi di appigli e speranza,
nel blu cobalto d’un mare
ricolmo d’indifferenza.
Oh, donna che reggi il destino
e guidi del tempo il cammino,
spiegami almeno perché
soltanto i poveri cristi,
quelli che sanno com’è
la litania dei sofisti,
non si dan pace che a te
piaccian buffoni e arrivisti

mercoledì 3 febbraio 2016

Buongiorno

Buongiorno, sempre ammesso che lo sia e/o che – in caso contrario – lo possa diventare quanto prima; buongiorno, in questa giornata uggiosa di “battistiana memoria”, tra conti che – esistenzialmente parlando – non tornano più – ed anzi, a dirla tutta, non tornano mai – ed una miriade di quisquiglie diurne che impongono – o meglio imporrebbero – al sottoscritto una presenza fattiva, vigile e concreta impossibile – allo stato e in tutta onestà – da garantire ed assicurare sotto alcuna forma.
Così, chi lo sa se quello che si apre sarà o non sarà un buongiorno?
Quelli che fanno gli oroscopi, quelli che divinano responsi, ci annoverano – in questo duemila sedici – tra i segni più forti dello zodiaco, ma – se la memoria non ci inganna – era così anche l’anno scorso e l’anno prima: dunque, i coglioni (ci si passi il francesismo), se ancora continuassimo a credere che il fato sia scritto nelle stelle, saremmo comunque noi, noi che – alla faccia della coerenza – per celia, pendiamo quotidianamente dalle labbra di Paolo Fox e pendevamo, ieri, da quelle di Branko.
Come se non bastasse, poi, la nostra scrivania – quella di casa – ci ricorda che Pitagora (ma qui si tratta al massimo di astronomia), da settimane, aspetta di essere riscoperto – o meglio, capito – ma l’armonia non trova posto – ora come ora – in una mente, la nostra, che – se ha indubbiamente sete di sapere, e di sapere filosofico in particolare – è però molto impegnata a tentare, purtroppo vanamente, di sbrogliare l’intricatissima matassa dei rimorsi, dei rimpianti e dei ripensamenti.
Certo, la buriana – in un modo o nell’altro – passerà: tante, infatti, e forti come e più di questa, ne sono e ne abbiamo passate; tante, infatti, sono state le volte in cui, come adesso – senza un motivo apparente – ci siamo ritrovati così, sospesi in balia del presente, a cercare di guardare oltre un orizzonte dalla linea curva ma che sembra immobile.
È l’attesa che snerva, specie in circostanze come questa, quando – con esattezza – non è dato nemmeno sapere che cosa si aspetta e una vocina – da dentro – insinua che magari, invece di aspettare, sarebbe opportuno muoversi in prima persona, correre in una direzione, anche se – mutuando il verso da un Guccini d’annata – «quale sia e che senso abbia chi lo sa».
Allora, buongiorno: sia come sia, da qui si comincia, perché augurarlo agli altri è augurarlo un po’ anche a se stessi.