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sabato 14 maggio 2016

«Nel buio, le mie colonne d'Ercole»...perché ci vuole davvero tanto, forse troppo, coraggio a stare sereni


Le espressioni “Coraggio” e “Stai sereno” – che oggigiorno sono molto in voga e sembrano andare per la maggiore – segnano simbolicamente quest’epoca contraddittoria ed evanescente, caratterizzata dal predominio dell’apparenza – anzi, meglio, della parvenza – sulla sostanza, dell’ottimismo – anche demagogicamente indotto – sul realismo, del “Detto” – che si vuole corrisponda automaticamente al “Fatto” – su un “taciuto” che però – e qui casca l’asino – non rima semplicemente col “Non fatto”, ma va piuttosto a braccetto con la volontà, più o meno esplicita, di “incardinare” e “incanalare” la pubblica discussione attorno a temi scelti ad arte che – di volta in volta – complice la sapiente padronanza dei meccanismi e delle tecniche proprie della comunicazione, si fanno assurgere a questioni d’importanza surrettiziamente vitale, onde evitare che si guardi al presente con obiettività. 
Allora, poco importa – essendo questa la china – se “Coraggio” e “Stai sereno” – per le ragioni di cui sopra – sono, ipso fatto, in antitesi: perché?
Perché si sa che – in nome del presunto, ipotetico,  probabile consenso – si può anche – ed anzi si deve – edulcorare la realtà, sproloquiando di miracolose e mirabolanti ripartenze e di altre affascinanti amenità che – per quanto possano, in vero, essere quasi surreali – servono comunque ad ammaliare, ad ammansire, a convincere “le masse” che le cose stanno cambiando in senso – s’intende – più che mai positivo; poi, la vita e le difficoltà quotidiane sono lì a dimostrare l’esatto contrario – e cioè che, nel migliore dei casi, tutto resta così com’è – ma è bello ascoltare le suadenti note del pifferaio magico di turno.
Dunque, come dicevano i Latini, “Mala tempora currunt”, anche se – o forse proprio perché – si fa di tutto per non pensare e non pensarci, per lasciarsi trasportare unicamente dal – e nel – “tempo-chronos”, come lo definivano i Greci, cioè in – e da – quel tempo che si conta in secondi, minuti, ore, giorni, mesi, stagioni, anni, lustri, decenni, secoli ed anche “secoli dei secoli”; e va da sé che – per mera pietà verso noi stessi – in  virtù delle cose già dette e di quelle che diremo, ci guardiamo bene dal chiosare il tutto con “l’Amen” di rito.
Già, cari signori, in quest’epoca mesta, bugiarda e funesta, il tempo-chronos – seppur stressato, “abusato”, oseremmo financo dire “stuprato”, piegato com’è a far da specchio ai mutevoli ed interessati capricci del contingente e dell’ovvio – la fa da padrone.
Questa, signori, è l’era del boh, dell’esaltazione speculativa del Nulla; è un’ora sbagliata e foriera di guai.
Ecco, ecco di che cosa parlano, che cosa raccontano i versi del nostro «Nel buio, le mie colonne d’Ercole» in uscita, per Bacchilega Editore, nel mese di maggio dell’anno duemila sedici, il trentanovesimo della nostra confusa esistenza. 
Ecco, parla del tempo – del tempo che fa la fronda e che, a furia di sfrondare, ti denuda – questa nostra raccolta di poesie impreziosita, in copertina, da uno splendido dipinto pensato e realizzato ad oc dall’amico Walter Di Piazza.
Sì, perché questo tempo impazzito non si lascia più scandire, né guardare in faccia e, anzi, sembra si diverta – per qualche recondita, misteriosa, insondabile ed incomprensibile ragione – a tentare di capovolgere la nostra barca; sì, perché pare proprio che le idee, persino le idee – al giorno d’oggi – non contino più un proverbiale fico secco e, meno che mai, possano servire a spiegare chi sei; sì, perché pare proprio che le idee – anche le idee – oggigiorno, non siano che “oggetti” manipolabili e fungibili a seconda delle convenienze, tanto manipolabili e tanto fungibili da aver perso qual si voglia consistenza: così, ad esempio, ciò che un dì si considerava nefasto e pericoloso diventa – d’incanto –  magnifico, fulgido, quasi perfetto, la migliore delle panacee possibili, e poco male se è – appunto – solo una panacea e se – come tale – rischia paradossalmente di aggravare la situazione.
Eccolo, dunque, il buio, quel buio figlio dell’incertezza e della labilità che – in quest’epoca – pare abbia la meglio su tutto e – in primis – sul pensiero, sull’umana capacità di discernere, distinguere, far sintesi, comprendere e comprendersi reciprocamente; ecco, eccolo il buoi che avvolge, ammanta, soffoca e uccide lo spirito critico di tutti e di ciascuno in nome – talvolta – di revanscismi sterili o dell’esaltazione della potenza fine a se stessa, di un leaderismo che confina col – e sconfina incontrollato nel – culto aprioristico della personalità; ecco, eccolo il buio in cui annaspa la nostra voglia, il nostro bisogno di amare ed essere amati – come uomini – così come siamo.
E allora? Allora succede che – di tanto in tanto – da due anni a questa parte, noi ci si ritrovi a scrivere, a tentare di mettere in versi il nostro crescente disagio, questo sentirci “non al passo”, “fuori dal tempo”, la nostra ostinata e pervicace volontà – posto che i tratti essenziali dell’assurda stagione che stiamo vivendo sono questi – di restare ai margini dell’osceno ballo in maschera cui si sta dando corso.
E allora? Allora accade che la nostra amica Sara – una di quelle che, davvero, ci conosce per come siamo, difetti non fisici compresi – convoli a giuste e improcrastinabili nozze, e noi siamo lì e – nell’emozione di sentirle dire “sì” – cominciamo a capire, a trovare il senso reale, l’ordine, la logica sottesa ai – e il filo rosso dei – versi che andiamo componendo.
Allora, cominciamo a capire: l’importante è sapere che ciò che ci unisce a Sara conta allo stesso modo per noi e per lei, a prescindere dall’assiduità con la quale ci si vede o ci si sente; ci rincuoriamo perché – in un batter di ciglia – si fa palese che lo stesso discorso vale per Barbara, Betta, Marika…, nonché per tutti quelli che ci hanno lasciato e non sono più accanto a noi, i quali – nella stessa misura e per lo stesso motivo – non ci abbandoneranno mai; si svela – in un lampo – il falso arcano per cui ci capita di pensare a Pierpaolo e alla sua Soverato – che è un po’ anche la nostra (tanto che torna in più di una lirica) – ogni volta che mettiamo, da soli, lo zucchero nel caffè; e l’anima – quest’anima, ad un tempo matrigna e testarda, protettiva e premurosa – ritrova il sorriso negli occhi e negli abbracci di due bimbi e di un ragazzo di vent’anni per i quali noi siamo – a prescindere – noi, per i quali zio Matteo è zio Matteo e basta, perché non c’è differenza tra l’uomo, il poeta e la persona, e perché:
«[…]di questi tempi, le colonne d’Ercole sono indispensabili e, così com’è vero che ognuno ha le proprie, voi siete – e sarete sempre – i pilastri delle mie[…]»

Matteo Sabbatani

Presentazione Sabato 28 maggio, ore 10.30, presso “Book city”, la Biblioteca della Scuola media Statale Luigi Orsini (Istituto comprensivo 7) via Antonio Vivaldi, 76
Libro acquistabile anche sul sito: www.bacchilegaeditore.it