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I Miei Libri


Prefazione di «Scandendo il tempo in versi» - «Bacchilega editore», 2006
La notte è appena calata. Voglio bene a questo mio momento di solitudine, a questo estremo abbraccio con me stesso, come un padre a una figlia. Quanti milioni, quanti miliardi di stelle ci sono nel cielo e quante sono le strade del mondo che adesso non vedo: cerco strade per fare e per diventare; le cerco nella speranza, e quasi nella certezza, di restare, anche il giorno che avrò fatto, anche il giorno in cui sarò diventato, uguale ad oggi, oggi che non sono niente, oggi che sono solo un uomo tra la gente.
Fare, diventare ed essere: eccolo qui il mio eterno dissidio, il mio eterno spiccare il volo e ricadere a terra ed ecco, forse, perché sono solo; ecco l’entusiasmante ricerca dell’uomo, della vita; ecco l’anelito di un sogno, la luce dietro un altro scoglio e la paura della fine dell’esistere, il timore che essa giunga prima che si compia pienamente questa lunga, assurda, stupenda rincorsa; ecco il perché della fretta, compagna distratta e sfuggente, antidoto solo apparente contro l’estetica imperante; ecco, in fine, l’assoluta e totalizzante esigenza di lasciare, nel domani, una traccia, fosse anche solo un verso, del mio transitare verso l’ineluttabile.
Amici? Più vado avanti e più m’accorgo che son pochi quelli veri: le dita di una mano, per contarli, sono abbondantemente sufficienti. Dio? Francamente, sono pressoché certo che non esista: viviamo in un’epoca nella quale a farla da padrona è l’incertezza, la labilità, l’assoluta provvisorietà di ogni cosa e, dunque, come può esistere un qualsiasi Dio? Tuttavia, posso sempre sbagliarmi. Ma una cosa è certa: se esiste, se non è solo un’idea - un palliativo - una falsa panacea, se non è solo una maniglia alla quale si aggrappano quanti non hanno fiducia in loro stessi - nella loro capacità di pensare - di ragionare e, quindi, di razionalizzare, allora non è né un uomo, né un triangolo con un occhio al vertice, né un cerchio; se esiste, se Dio esiste, è un quadrato,  è qualcosa che, se ha gli occhi, o non li usa, o li usa male perché non guarda mai oltre il proprio naso. Delle donne, poi, non ne parliamo: ne ho sposate ben due, la politica e la poesia, che son due amori utopici, platonici, lo so, ma non si corrono, con loro, tutti i rischi a cui si è esposti quando si ama nel senso comune del termine. Certo, la mia prima moglie, la politica, mi tradisce spesso, ma basta dormirci su una notte, magari scrivendo qualche verso prima di coricarsi, per dimenticare o, almeno, per sbollire la rabbia. La mia seconda consorte, la poesia, invece, pur essendo platonica e misteriosa come e, forse, più della prima, non mi tradisce mai: lei, infatti, è l’unica che riesce, sarà anche merito del nome che porta, ad infondermi un po’ di calma, di quiete, a placare, per qualche momento, la mia sete, a farmi ragionare (anche troppo, dice qualcuno); lei riesce a darmi, per qualche attimo, la sensazione di poter domare il tempo e lo spazio; lei è, di per sé, un’artista e, con poco, pochissimo, riesce a disegnare quadri, davanti ai miei occhi, in cui c’è tutto: spazio, un frammento di tempo, amore, dolore, silenzio, rumore, solitudine, moltitudine, essenza, apparenza, esistere e passione; lei è parola, parola che resta perché scritta, parola che non fa come tutte le altre, le quali si danno quando vengono espresse e poi svaniscono, disperdendosi nell’aria; lei è parola, simbolo, segno distintivo della specie umana dalle altre che popolano questo minuscolo granello di polvere cosmica; lei, signori, è parola, vibrazione della psiche, evidenza del simultaneo mescolarsi di cuore e mente; lei è parola, ritmo, sillabazione, musicalità, cadenza del singolo verso; lei, la poesia, è parola che serve a tentare di spiegare e di capire. Affidarsi, allora, a lei, alla poesia, che dunque è l’esaltazione della parola, è come trovarsi, d’un tratto, aggrappati, senza nessuna apparente ragione, alla coda della cometa del tempo e dei sogni, stringerla, afferrarla con quanta più forza si ha, fino a quando essa non scivola via in un sospiro. A me non resta che ringraziarla, sfiorarla con un dito ed aspettare la prossima notte.



(Matteo Sabbatani)








Prefazione «Pensieri in agrodolce» - «Bacchilega editore», 2007
Più e più volte mi sono chiesto che ne sarebbe di me, del mio voler essere uomo di lettere e di cultura, se non riuscissi a centrare l’obbiettivo.
Ebbene, ora, ora che sarebbe lecito che, per motivi contingenti, l’interrogativo si facesse più pressante, mi guardo dentro e quasi non me ne importa nulla .
Uno strano scherzo del destino, non trovate? Eppure io credo, tuttavia, che anche questo abbia un senso: credo, cioè, che ci sia una spiegazione – razionale o irrazionale, logica o illogica poco importa – anche per quanto sto vivendo.
Mi sembra di poter affermare con un certo grado di sicurezza, comunque, che, almeno stavolta, il mio animo sensibile di poeta c’entri poco; stavolta credo centri, soprattutto, il mio modo di essere uomo.
“Parole grosse”, direte voi, e, anche se mi costa ammetterlo, con tutta probabilità avete pure ragione:
“Che vuol dire”, mi domando io stesso, “Che stavolta c’entra il mio modo d’esser uomo?
Ma poi, che cosa e con cosa avrebbe qualcosa a che spartire il mio modo d’essere uomo? E, in ultima analisi, che cazzo sto scrivendo”?
Risposta:
“Andiamo bene, non lo so nemmeno io”!
Me le dico e me le scrivo, dunque, e quel che è peggio è che non me ne vergogno minimamente: sono spudorato, è vero, ma, così come non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire – e l’adagio popolare ce lo rammenta mirabilmente – parimenti, ritengo che nessuno – e tanto meno chi anela, come il sottoscritto, a far di questo hobby uno sporco mestiere – debba vergognarsi di ciò che scrive.
Si faccia attenzione, però: infatti, sostenere che non ci si deve vergognare di quel che si scrive non implica necessariamente, almeno per quanto attiene al sottoscritto, che quanto si scrive debba essere giocoforza letto, il giorno appresso, da altri.
Se poi si pensa, e parlo per esperienza, che sovente è lo stesso autore, rileggendo una pagina a distanza di tempo, a trovare la medesima uno schifo, allora ci si avvede – non solo e non tanto di come tutto, in questo mestiere, sia ampiamente opinabile – quanto del fatto che accade spesso, e parlo – lo ribadisco – per esperienza, che la “roba” che rimane nel celeberrimo cassetto sia assai più degna di nota di quella che circola più o meno liberamente: noi, insomma, che pur ci vantiamo d’esser stilisti della parola, siamo prigionieri di quel pudore che è figlio del nostro stesso mal di vivere.
Se noi ci si considera artisti, se noi ci si considera geni è perché, o lo siamo veramente, o qualcuno lo ha sostenuto e lo sostiene con una tale foga da riuscire a convincercene.
Per quel che mi riguarda, ho altro da fare che stare a chiedermi se son genio, se lo sono per davvero – intendo – o meno: sono estremamente convinto che l’onere dei poeti, degli scrittori, l’onere degli intellettuali in genere, insomma, sia quello d’esser testimoni dell’epoca in cui viviamo, “termometri” il più possibile precisi, del “clima” del nostro tempo.
È ovvio, però, che anche noi siamo essere umani e, pertanto, siamo tutt’altro che infallibili; è ovvio che commettiamo, nel nostro mestiere, l’errore che è proprio di ogni uomo, quello di partecipare emotivamente a quanto accade; è ovvio, stante quanto sopra che anche le nostre analisi della realtà sono tutt’altro che asettiche. E allora sarebbe lecito che voi vi chiedeste se valga poi la pena di pendere da labbra, le nostre, che tanto non differiscono dalle vostre: già, sarebbe giusto che voi vi interrogaste sul senso effettivo del nostro ruolo, anche se questo – portato alle estreme conseguenze – sancirebbe la nostra fine.
Non vi sono, ne son certo né predestinati né eletti: nessuno nasce, cioè, sapendo d’esser poeta, scrittore, filosofo o sociologo, matematico, astronomo o scienziato; nessuno nasce “imparato”, per usare un modo di dire che, se è poco corretto in italiano, ha comunque un intensa capacità di sintesi che ne costituisce e ne rappresenta l’indubbia potenza niosologica, ma nasciamo tutti con delle preferenze, delle attitudini, delle caratteristiche che segnano, in un modo o nell’altro, il nostro destino terreno, la nostra corsa esistenziale.
Ciò che differenzia noi, noi presunti geni, noi presunti intellettuali è il tempo, o meglio, il modo di usare questa infinita successione di attimi; ciò che ci differenzia – e perdonate la mia presunzione - è la nostra estrema consapevolezza della circostanza in forza della quale, se è vero che – appunto – il tempo è una successione infinita di attimi, l’uomo – di contro – è un essere finito, limitato, è un’entità che -  nel tempo - si usura fino a spegnersi.
Non so dir se questa sia sociologia, filosofia oppure semplice masturbazione mentale, ma di una cosa sono certo: l’uomo, sia esso o meno un genio può avere, nel migliore dei casi, unicamente, la mera consapevolezza della sua esistenza, del suo esserci qui e ora; allora non esiste il previdente, non esistono né il coglione né l’assennato: esiste l’uomo, la sua labilità e la sua provvisorietà di essere che, maturando – ovvero essendo perennemente in divenire – va incontro alla sua naturale e incombente obsolescenza.
Nemmeno noi, proprio perché al pari di chiunque altro siamo uomini, possiamo permetterci il lusso di vivere nella convinzione di bastarci: al pari del più umile dei nostri simili, infatti, anche noi siamo se, e solo se, gli altri lo riconoscono; così non deve stupire che anche noi ringraziamo chi magari ci ascolta nell’intento di capire “uno che parla al buio e non sa cosa dire”.
Francamente spero che nessuno, nessuno di noi riesca mai a comprendere quella che è, al contempo, l’ultima e la prima radice del senso delle cose: spero, cioè che -  pur nella continua avanzata del sapere umano, pur nel continuo ampliarsi degli orizzonti del nostro scibile – la natura, perché è da lì che veniamo ed è lì che torneremo, riesca a conservare per sempre questo suo segreto.
Di parole, di pensieri come questi ne potrei formulare a bizzeffe: in ogni parte del cosmo vi sono miliardi di stelle e, se uno è convinto che a ciascuna di esse possa corrispondere un pensiero, un sentimento, una sensazione, allora è giusto che non smetta di pensare e di sognare.
Ecco perché vorrei che, compatibilmente con le circostanze, sulla mia pietra fosse scritto:
Matteo Sabbatani:  poeta, scrittore e sociologo. Disposto a morire per un briciolo di senso, fu stroncato da un banale accidente “.
Chiedo venia: lo riconosco, il mio è un realismo un po’ macabro, ma credo sia meglio essere realisti macabri che utopisti coglioni.
E allora, se queste cose –  invece che scriverle – le dicessi a parole davanti a voi, davanti a un pubblico, mi aspetterei che voi mi interrompeste per domandarmi:
“Ma come, secondo lei è inutile sognare?”
No, come ho già detto – ma forse è opportuno tornarci sopra – ogni stella del cielo è un sogno e l’uomo è nato per sognare: se noi non si sognasse non potremmo vivere, ma la morte è quell’attimo in cui finisce tutto, l’uomo e il sogno.
Ecco, forse adesso ho scoperto, ho capito cosa cazzo sto scrivendo, cosa e con cosa ha qualcosa da spartire il mio modo di esser uomo: ora, io vi dico che il mio modo di esser uomo centra e ha inevitabilmente a che spartire con la vita che ho vissuto e, si badi, questa considerazione è molto meno ovvia di quanto possa sembrare. Quel qualcosa che il mio modo di esser uomo ha a che spartire con la vita che ho vissuto non sono tanto io, ma è quel tanto o quel poco che ho lasciato; quel qualcosa che il mio modo di esser uomo ha a che spartire con la vita che ho vissuto non è tanto – così almeno mi piace pensare – l’uomo in carne ed ossa che son stato, non sono tanto le mie mani, le mie dita, le mie gambe, i miei piedi, il mio volto e i miei capelli, ma le cose che ho scritto, siano esse in versi o in prosa: lì, infatti, c’è e ci sarà per sempre Matteo Sabbatani. Se ho scelto, e non lo rinnego, di affidare tutto questo a pochi è perché è di quei pochi e solo di quelli, che veramente mi fido – è perché quei pochi, e solo quei pochi, hanno avuto il coraggio, hanno commesso l’imprudenza di provare a seguirmi nelle mie continue discese e risalite, nei miei tornanti, nelle mie curve a gomito, in tutte le uova di Colombo che ho partorito per il puro gusto di farlo.
A costoro và, sin d‘ora che son vivo, il mio ringraziamento più sentito, e vorrei che a costoro andasse almeno un frammento dell’unica cosa, scritti a parte, che di me resterà, l’anima.
Verso costoro non provo alcuna vergogna, alcun falso pudore: essi san già, han già compreso che la mia anima è sporca, o pulita, come la loro e , dunque, so che – così   come non hanno avuto remore né timori nell’accettarmi in vita per quel che sono – allo stesso modo sapranno, in morte, conservare tutto questo, facendone magari quell’uso del quale tanto abbiamo ragionato e discusso insieme.
In fede,
Matteo Sabbatani







Prefazione «Dialoghi apparentemente futili» - «Bacchilega editore», 2009
Nel rosso del tramonto – questa sera – rivedo la mia vita tutta intera.
Rima endecasillaba baciata a parte, è tutto vero: la splendida luce – a metà tra il rosa e il rosso porpora – che colora il cielo questa sera, cioè, mi aiuta a guardare in trasparenza, intatti e protetti come sono da quella sottile pellicola che è il tempo, tutti i fotogrammi della mia vita sin qui.
Ma chiunque abbia a mettere piede nel sentiero che – in questi minuti – sto tracciando può stare tranquillo: di certo, non ho alcuna intenzione di tornare a disquisire di bilanci esistenziali e questioni simili, ma sento l’esigenza – tuttavia – di mettere i puntini sulle i, come si usa dire in gergo, ovvero di precisare pubblicamente – a futura memoria – quelle che ormai son certo siano le caratteristiche umane peculiari della mia persona.
Ma che c’è? Che dite? A che si deve il brusio preoccupato che, d’un tratto, si leva?
E perché mai, fingendomi le vostre facce, le vedo rivolte a me con espressioni interdette e attonite?
Ah, ora capisco, vi siete presi paura di quel mio:
“A futura memoria”, non è così?
No, no-no, non ho in mente di compiere gesti inconsulti od insani di alcun genere, tranquilli.
Vedete, ho riflettuto molto prima di decidere che  questi racconti meritavano anche una prefazione; vedete, ho riflettuto molto perché – che ci crediate o meno non importa – non sapevo come presentare quanto segue: già, perché quanto segue è nato per caso, è l’idea di un momento e non è facile descrivere l’idea di un momento senza svelarne il contenuto.
Allora, l’unica cosa che mi sento di anticipare è che nemmeno io – io che pure lo sto scrivendo – so ancora dire come questo libro finirà: le storie nascono mentre si raccontano, perché la loro narrazione – così  come la composizione di una poesia – segue i continui sussulti dell’anima, i battiti del cuore, quelli delle ciglia.
Il tempo – poi – e questo è un altro piccolo suggerimento che mi sento di dare, si può misurare in molti, moltissimi modi diversi.
Che cosa vuol dire?
Eh no, questo nemmeno vi autorizzo a domandarlo.
Perché? Come perché?
Perché sarò un po’ matto, sarò indeciso sui finali dei diversi racconti, ma tutto il resto l’ho in mente.
Cosa, c’è una contraddizione? E dove, dov’è la contraddizione?
Sì, avete ragione: non si può dire, prima, che le storie nascono mentre le si scrive,  mentre le si racconta e, poi, che – finali a parte – chi le scrive ha già tutto in mente.
Ebbene, chiarisco: ho un’idea in testa, un’idea i cui contorni, i cui tratti essenziali sono – in linea di massima - definiti, ma tutto il resto è,...come si dice..., ancora da scrivere; ebbene, chiarisco: può sembrare strano, o se volete  un po’ banale, ma l’idea di scrivere queste storie mi è venuta guardandomi le dita di una mano.
Sì, d’accordo, lo spunto è tutt’altro che originale, lo riconosco, e può darsi pure che, mentre scrivo, l’anima e lo spirito di Pirandello mi raggiungano e consumino la debita vendetta, ma – lo posso giurare sin d’ora – di Pirandelliano, nei racconti che seguono, c’è solo lo spunto, uno spunto che però – e qui concludo la mia arringa difensiva – durante la narrazione non viene nemmeno menzionato, neppure rimarcato e neanche evidenziato.
Ecco, allora succede che lo sguardo, questa sera, mi cade – per  caso, lo ribadisco – sulla mia mano destra, quella che non uso per niente perché è deforme, più sottile e assai meno prensile rispetto alla sinistra.
La guardo e, tra me e me, esclamo:
“Vabé, ma ha cinque dita anche questa, però!”
Notate, vi prego, la folgorante constatazione: abbiamo due mani di cinque dita l’una, cavolo!
Che c’è? Ve l’ho detto che sono matto, no!
Dunque, si diceva? Ah sì, si diceva del tempo e delle svariate modalità di misurazione del medesimo: ecco, credo di non affermare nulla di nuovo, di sconvolgente o di rivoluzionario, nulla – insomma – di sovversivo se dico che il tempo è quella cosa, quell’unica cosa che rimane sempre uguale da qualunque lato lo si guardi, con qualunque mano – sia essa normale o deforme, destra o sinistra, sottile o grossa – si cerchi vanamente di fermarlo, di afferrarlo. Il tempo, insomma, ti cambia, ma tu, per quanti sforzi possa fare, non lo potrai mai cambiare: è così che gira il mondo, per quanto possa sembrare scontato ed ovvio, è una sorta di legge universale delle cose.
“E allora la Storia?”, direte voi.
È il tempo che fa la storia, gli uomini – invece – la recitano.
    
                                                                                                                                  (Matteo Sabbatani)








Prefazione «Anfratti del pensiero sottile» - «Bacchilega editore», 2012
Da giorni, ragiono sul breve commento introduttivo alle pagine che seguono, sul suo possibile contenuto, ma – a monte – financo sull’opportunità di scriverlo, di dar corso e corpo – insomma – ad una vera e propria prefazione: perché? Perché un libro così, un libro del genere, un libro tanto simile ad un diario non necessita – forse – di troppi preamboli, se è vero – come, fino a prova contraria, è vero – che ogni diario ha nella segretezza la sua più importante peculiarità e – da che mondo è mondo – la segretezza fa a pugni con la pubblicità.
A ciò si aggiunga, poi, e non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo, che non avevo – sulle prime – la benché minima intenzione di dare alle stampe le riflessioni ed i pensieri di cui questo volume si compone: scrivere senza filtro o quasi – e, quindi, senza l’obbligo assillante del “politicamente corretto” che deriva dalla “consapevolezza del dopo” – permette un surplus di licenziosità – in relazione tanto ai temi, quanto al linguaggio – che  il sacrosanto pudore sconsiglia caldamente di utilizzare in altri casi, quando il tuo primo dovere è farti capire, quando non puoi assolutamente concederti il lusso di limitarti a sottintendere, a lasciare intuire, intravvedere, a giocar con le parole così, per il puro gusto di farlo.
Ma a noi poeti, a noi scrittori, a chi è convinto di essere – infondo-infondo e prima d’ogni altra cosa – un intellettuale ed un artista, accade sovente – e con questo non avevo fatto i conti – di anticipare, per un verso, i tempi, i fatti, le tendenze, le mode, le questioni e, per l’altro, di comprendere solo a posteriori quale sia il senso reale, l’effettiva ragione, la molla scatenante delle cose che fa, dice e scrive, nonché – ammesso e non concesso che esista – quale sia il filo rosso, molto spesso talmente sottile da essere pressoché impercettibile, che le tiene insieme.
Così, solo ora – ora che l’ho scritto quasi per intero – posso affermare – in scienza e coscienza, come dicono quelli che ne sanno – di aver trovato, probabilmente, il cosiddetto “bandolo della matassa”.
Vedete, a volte, nella vita, ci si ritrova – senza alcun preavviso – impigliati in qualche inestricabile e sconosciuta ansa, in qualche insenatura dell’anima: sono i casi, le circostanze in cui – anche se il cuore si spaura – la volontà ha comunque il sopravvento, perché la debolezza e la costante inadeguatezza dell’uomo alle sfide della sorte non sono limiti insuperabili, ma l’inesauribile garanzia dell’infinito perpetuarsi de mondo.

Matteo Sabbatani









Presentazione della raccolta di poesie "Nel buio, le mie colonne d'Ercole" - Bacchilega Editore, 2016

Le espressioni “Coraggio” e “Stai sereno” – che oggigiorno sono molto in voga e sembrano andare per la maggiore – segnano simbolicamente quest’epoca contraddittoria ed evanescente, caratterizzata dal predominio dell’apparenza – anzi, meglio, della parvenza – sulla sostanza, dell’ottimismo – anche demagogicamente indotto – sul realismo, del “Detto” – che si vuole corrisponda automaticamente al “Fatto” – su un “taciuto” che però – e qui casca l’asino – non rima semplicemente col “Non fatto”, ma va piuttosto a braccetto con la volontà, più o meno esplicita, di “incardinare” e “incanalare” la pubblica discussione attorno a temi scelti ad arte che – di volta in volta – complice la sapiente padronanza dei meccanismi e delle tecniche proprie della comunicazione, si fanno assurgere a questioni d’importanza surrettiziamente vitale, onde evitare che si guardi al presente con obiettività. 
Allora, poco importa – essendo questa la china – se “Coraggio” e “Stai sereno” – per le ragioni di cui sopra – sono, ipso fatto, in antitesi: perché?
Perché si sa che – in nome del presunto, ipotetico,  probabile consenso – si può anche – ed anzi si deve – edulcorare la realtà, sproloquiando di miracolose e mirabolanti ripartenze e di altre affascinanti amenità che – per quanto possano, in vero, essere quasi surreali – servono comunque ad ammaliare, ad ammansire, a convincere “le masse” che le cose stanno cambiando in senso – s’intende – più che mai positivo; poi, la vita e le difficoltà quotidiane sono lì a dimostrare l’esatto contrario – e cioè che, nel migliore dei casi, tutto resta così com’è – ma è bello ascoltare le suadenti note del pifferaio magico di turno.
Dunque, come dicevano i Latini, “Mala tempora currunt”, anche se – o forse proprio perché – si fa di tutto per non pensare e non pensarci, per lasciarsi trasportare unicamente dal – e nel – “tempo-chronos”, come lo definivano i Greci, cioè in – e da – quel tempo che si conta in secondi, minuti, ore, giorni, mesi, stagioni, anni, lustri, decenni, secoli ed anche “secoli dei secoli”; e va da sé che – per mera pietà verso noi stessi – in  virtù delle cose già dette e di quelle che diremo, ci guardiamo bene dal chiosare il tutto con “l’Amen” di rito.
Già, cari signori, in quest’epoca mesta, bugiarda e funesta, il tempo-chronos – seppur stressato, “abusato”, oseremmo financo dire “stuprato”, piegato com’è a far da specchio ai mutevoli ed interessati capricci del contingente e dell’ovvio – la fa da padrone.
Questa, signori, è l’era del boh, dell’esaltazione speculativa del Nulla; è un’ora sbagliata e foriera di guai.
Ecco, ecco di che cosa parlano, che cosa raccontano i versi del nostro «Nel buio, le mie colonne d’Ercole» in uscita, per Bacchilega Editore, nel mese di maggio dell’anno duemila sedici, il trentanovesimo della nostra confusa esistenza. 
Ecco, parla del tempo – del tempo che fa la fronda e che, a furia di sfrondare, ti denuda – questa nostra raccolta di poesie impreziosita, in copertina, da uno splendido dipinto pensato e realizzato ad oc dall’amico Walter Di Piazza.
Sì, perché questo tempo impazzito non si lascia più scandire, né guardare in faccia e, anzi, sembra si diverta – per qualche recondita, misteriosa, insondabile ed incomprensibile ragione – a tentare di capovolgere la nostra barca; sì, perché pare proprio che le idee, persino le idee – al giorno d’oggi – non contino più un proverbiale fico secco e, meno che mai, possano servire a spiegare chi sei; sì, perché pare proprio che le idee – anche le idee – oggigiorno, non siano che “oggetti” manipolabili e fungibili a seconda delle convenienze, tanto manipolabili e tanto fungibili da aver perso qual si voglia consistenza: così, ad esempio, ciò che un dì si considerava nefasto e pericoloso diventa – d’incanto –  magnifico, fulgido, quasi perfetto, la migliore delle panacee possibili, e poco male se è – appunto – solo una panacea e se – come tale – rischia paradossalmente di aggravare la situazione.
Eccolo, dunque, il buio, quel buio figlio dell’incertezza e della labilità che – in quest’epoca – pare abbia la meglio su tutto e – in primis – sul pensiero, sull’umana capacità di discernere, distinguere, far sintesi, comprendere e comprendersi reciprocamente; ecco, eccolo il buoi che avvolge, ammanta, soffoca e uccide lo spirito critico di tutti e di ciascuno in nome – talvolta – di revanscismi sterili o dell’esaltazione della potenza fine a se stessa, di un leaderismo che confina col – e sconfina incontrollato nel – culto aprioristico della personalità; ecco, eccolo il buio in cui annaspa la nostra voglia, il nostro bisogno di amare ed essere amati – come uomini – così come siamo.
E allora? Allora succede che – di tanto in tanto – da due anni a questa parte, noi ci si ritrovi a scrivere, a tentare di mettere in versi il nostro crescente disagio, questo sentirci “non al passo”, “fuori dal tempo”, la nostra ostinata e pervicace volontà – posto che i tratti essenziali dell’assurda stagione che stiamo vivendo sono questi – di restare ai margini dell’osceno ballo in maschera cui si sta dando corso.
E allora? Allora accade che la nostra amica Sara – una di quelle che, davvero, ci conosce per come siamo, difetti non fisici compresi – convoli a giuste e improcrastinabili nozze, e noi siamo lì e – nell’emozione di sentirle dire “sì” – cominciamo a capire, a trovare il senso reale, l’ordine, la logica sottesa ai – e il filo rosso dei – versi che andiamo componendo.
Allora, cominciamo a capire: l’importante è sapere che ciò che ci unisce a Sara conta allo stesso modo per noi e per lei, a prescindere dall’assiduità con la quale ci si vede o ci si sente; ci rincuoriamo perché – in un batter di ciglia – si fa palese che lo stesso discorso vale per Barbara, Betta, Marika…, nonché per tutti quelli che ci hanno lasciato e non sono più accanto a noi, i quali – nella stessa misura e per lo stesso motivo – non ci abbandoneranno mai; si svela – in un lampo – il falso arcano per cui ci capita di pensare a Pierpaolo e alla sua Soverato – che è un po’ anche la nostra (tanto che torna in più di una lirica) – ogni volta che mettiamo, da soli, lo zucchero nel caffè; e l’anima – quest’anima, ad un tempo matrigna e testarda, protettiva e premurosa – ritrova il sorriso negli occhi e negli abbracci di due bimbi e di un ragazzo di vent’anni per i quali noi siamo – a prescindere – noi, per i quali zio Matteo è zio Matteo e basta, perché non c’è differenza tra l’uomo, il poeta e la persona, e perché:
«[…]di questi tempi, le colonne d’Ercole sono indispensabili e, così com’è vero che ognuno ha le proprie, voi siete – e sarete sempre – i pilastri delle mie[…]»


Matteo Sabbatani


Presentazione dell'antologia "A mani alzate. Appunti di viaggio di un resistente contemporaneo" - Bacchilega Editore, 2018

Scrivere, no, non è un mestiere: non lo è, non lo è mai stato, né mai lo sarà per nessuno, nemmeno per chi – al contrario di me – ha la fortuna di riuscire a trarne sostentamento.
No, lo ripeto, scrivere non è un mestiere, non è una professione: non si scrive – raccontando di sé – per dovere verso terzi; non si scrive – raccontando di sé – “a comando”, ma può capitare – e a me qualche volta è successo – che il destino s’inventi, per così dire, un’occasione: può accadere, cioè, che si venga chiamati ad esprimere il proprio punto di vista, la propria opinione, il proprio pensiero, il proprio sentire – circa un evento, un accidente del mondo, una circostanza – nel momento esatto in cui più forte, più pressante, più impellente si avverte l’esigenza di esternare uno stato d’animo, di “denunciare” la particolare contingenza che si sta vivendo, tal che al poeta non resta che “cogliere l’attimo”.
Ebbene, in quarant’anni di vita – più della metà dei quali, chissà poi perché, trascorsi a ritagliarmi sempre il tempo per cercare di capire, di capirmi e di trasferire sulla carta sensazioni ed impressioni – di attimi ne ho colti davvero tanti, fossero essi personali e privati – che andavano a punteggiare la traiettoria della mia esistenza – o collettivi e pubblici, tali da lasciare un segno – anche piccolo – nella Storia con la S maiuscola.
Ma, e sono sincero, a farne un libro – o meglio, un’antologia – proprio non ci avevo – e non ci avrei mai – pensato: perché? Perché, d’accordo, sono un poeta e, come tutti i poeti, sono narciso ed autoreferenziale, ma non ho – né ho mai avuto – l’ardire di credere che ogni cosa che scrivo sia degna di nota a prescindere.
A Giorgia Tampieri, artista dal sicuro avvenire che – a colpi di graffite, pastello nero e penna a sfera – ha ritratto il sottoscritto nella copertina, va un “Grazie” sentito, sincero, tutt’altro che rituale o di circostanza: dopo aver scorso le bozze di un libro come questo – che uscirà a maggio per Bacchilega Editore ed è un viaggio, un po’ in versi e un po’ in prosa, tra le diverse ere attraversate da quest’uomo che sono negli ultimi decenni – le sono bastate due chiacchiere per riuscire a sintetizzare mirabilmente, e non era facile, il momento che vivo, il senso di un percorso esistenziale affrontato, sin qui, «A mani alzate», con la consapevolezza che si esiste solo se si resiste e – ovviamente – viceversa.

Matteo Sabbatani








Presentazioni della silloge "Luna e sabbie mobili" - "Il ponte vecchio", 2020

"INTRODUZIONE

Non è scontato scrivere del quotidiano. E soprattutto non è operazione facile.
E' necessario saper scucire e ricucire quella dura scorza – già tanto provata e rammendata! - che chiamiamo pelle e osservarsi con stupita e rinnovata sorpresa nelle azioni ed emozioni che, come marionette, mettiamo giornalmente in scena. Raccontandoci.
Occorre armarsi di grande attenzione. Fermarsi e attendere, per riprendere quindi ad annotare tutto ciò che ogni giorno, per abitudine, per errore, per distrazione, finisce poi per sfuggirci: cose, persone, comportamenti, angolazioni e soprattutto le inafferrabili figlie della coscienza: le idee.
E allora...
            Mettiamo che si decida di farlo senza ipocrisia, rischiando e raschiando ogni possibile lordura - e sublime bellezza - della nostra usurata armatura.
            Mettiamo che si voglia farlo perché le illusioni hanno ceduto le armi e si sono sbriciolate. E non son buone neppure per i passeri!
            Mettiamo che lo sfinimento per una lotta impari con le spocchiose convinzioni altrui ci abbia lasciato inermi. 
            Mettiamo che nell'universo spazialmente e umanamente nostro, con pacata lucidità, si decida una volta per tutte di mettere ordine. Un ordine personalissimo che non chiede scuse né fornisce spiegazioni.
Ecco come si dipana questo volume di poesie dal limpido titolo di Luna e sabbie mobili. Con la chiarezza che lo contraddistingue, con la padronanza dello strumento poetico che lo caratterizza, Matteo, come un giullare ilare e malinconico, ci mostra la realtà della condizione umana. La sua. La nostra.
Il suo verseggiare in splendida e perfetta rima che quando lo si legge ad alta voce si trasforma in prosa impeccabile, ci regala ancora una volta il privilegio,  pur nel segno della contraddizione e della complessità, di conoscere il lume sottile tra il procedere e il ritornare che tiene sospesa nel pugno la speranza dell'ennesima salvezza."
Di Rosarita Berardi

"Sapete, raramente mi scopro soddisfatto appieno di quel che scrivo e dò alle stampe, ma «Luna e sabbie mobili», la mia quarta raccolta di poesie – in libreria in questi giorni, edita da “Il ponte vecchio” – è, in un certo senso, l’eccezione che conferma la regola.
Dopo averne verificato più volte le bozze – prestando doverosamente attenzione, in quella sede, ad eventuali errori di battitura, refusi eccetera – da un paio di settimane, grazie alla solerzia del mio editore, l’ho per le mani e, per quanto mi costi ammetterlo, devo confessare che a questo bastardo di Coronavirus – che pure ne cagiona il rinvio a data da destinarsi della presentazione – un merito va pur riconosciuto: è fuor di dubbio, infatti, che esso mi dia l’agio, il tempo e il modo di leggerla con tutta calma e di constatare che, questa volta sì, così la volevo, così l’ho pensata e concepita,  e  così mi è venuta.
Già, perché «Luna e sabbie mobili» – che nasce esclusivamente dall’esigenza del sottoscritto di esternare il proprio stato d’animo – è il racconto, in versi, di quella che è stata ed è – da un anno e mezzo a questa parte – la mia “quotidianità esistenziale”; già, perché «Luna e sabbie mobili» è una silloge cruda, sincera e spietata che – a ben vedere – concede poco o nulla a quella sorta di “ottimismo di maniera” (lasciate che lo definisca in questo modo) che si vorrebbe andasse per la maggiore, quando invece so per certo che, nella mia come nella vostra realtà, sono le sabbie mobili a fare la parte del leone.
Vedete, tutti noi – giorno per giorno – lottiamo per non soccombere, per non lasciarci soffocare e sopraffare – appunto – dalle sabbie mobili di una società, quella contemporanea, che – dietro un dinamismo apparente – non fa che perpetuare modelli sempre uguali e ormai stereotipati come il ciclo naturale delle stagioni.
Stante quanto sopra, allora, non è un caso che proprio il ripetitivo, monotono ed immutabile avvicendarsi di primavere, estati, autunni e inverni faccia da sfondo, da “fondale scenico” perfetto al dipanarsi dell’intreccio emotivo che rappresenta il fulcro centrale di una raccolta, questa, che è – ad un tempo – intima e “antropologica”, personale e sociale: perché?
Perché, se è per mera ventura che il destino si avvede della necessità del poeta di esprimersi, ciò si deve – paradossalmente ma non troppo – alla circostanza in forza della quale la postmodernità imperante ha toccato il fondo, l’esasperante ed illogico predominio della funzione sulla struttura ha mostrato la corda e l’anomia di Durkheimiana memoria – cioè quella perdita di valori che, secondo il filosofo e sociologo francese, era stata prodromica all’avvento della società moderna – torna, pure agli albori di un ventunesimo secolo nato amorfo, monco e distorto, a farla da padrona.
In altri termini, il paradosso vuole che il cosiddetto “secolo breve”, in punto di fatto, sia tutt’altro che morto e sepolto, se è vero com’è vero che la società postmoderna continua ad ignorare, non solo e non tanto il senso ottocentesco della differenza tra solidarietà meccanica e solidarietà organica, quanto il significato letterale – ancor prima che etimologico – della parola solidarietà, nonché a fare strame dell’empatia che ad essa dovrebbe accompagnarsi.
E il poeta?
Il poeta non può – se questo è il quadro ed il contesto – che ritrovarsi più che mai solo, non può che avvertire più che mai il peso di una diversità – la sua – che è umana prima che intellettuale e – conseguentemente – non può che lanciare un grido, un’inascoltata ed incompresa richiesta d’aiuto, convinto com’è che l’ansia che lo attanaglia, lo soffoca e gli fa mancare il fiato sia la stessa che imbriglia la vita dei suoi simili, ma che costoro preferiscano (chissà perché?) evitare di prenderne atto, quasi come se il destino della specie fosse ineluttabilmente segnato, come se le curve che il fato disegna non potessero essere che cieche, come se  non restasse altro da fare che lasciarsi abbagliare dal gioco sciocco delle parvenze.
Ecco, è a queste sabbie mobili che il poeta, in un certo qual modo, si rassegna: ne combatte e ne contrasta – beninteso – la forza opprimente, ma constata anche la sostanziale irreversibilità della situazione.
Lo sa bene, a lui basta poco – da poeta – per ritrovarsi, senza parole, nell’abbraccio dell’infinito, oppure per riscoprire tutta la bellezza e la purezza del senso della vita e della poesia in una rosa che resiste ad una nevicata, ma lui col paradosso guerreggia e scende a patti quotidianamente, mentre il resto del mondo – purtroppo – fatica persino a concepirne l’esistenza: infatti, per gli altri – per quasi tutti gli altri – esiste semplicemente la ferrea logica matematica in virtù della quale uno più uno fa due, ed è “gioco, partita e incontro”.
Sì, perché – per gli altri, per quasi tutti gli altri e per il mondo – tutto il resto non esiste o – se esiste – non può essere detto e, se – pena l’emarginazione sociale – non può essere detto, allora si può – ed anzi si deve – fare il possibile per non pensarci e non pensarlo neppure: in fondo – si sa – le regole non scritte sono molto più cogenti di quelle formali, nella misura in cui anche la politica – lungi dal farsi carico dell’onere di fornire una prospettiva – si “sterilizza” nella mera  rincorsa trasformistica al consenso ed alla visibilità, con buona pace di quei principi costituzionali che ne dovrebbero orientare l’agire, oltre che della decenza.
Soluzioni, vie d’uscita?
Signori, non ce ne sono, dal mio punto di vista; signori, io – da povero poeta quale pure sono – non ne vedo; signori, poi – dopotutto – non è a me che dovreste rivolgervi: dunque, a me – per favore – non domandate.
Sapete, io – se volete – posso tentare di spiegarvi, ammesso che ci sia una spiegazione razionale, come e perché – finito un temporale, mentre il sole torna a farsi largo tra le nubi – può nascere una poesia; io, se volete, posso raccontarvi come e perché – a volte – si scrivano versi financo per scaramanzia, tentando di esorcizzare il timore – sempre presente – che la nostra fine giunga troppo presto e troppo in fretta; io, se volete, posso dirvi che fermarsi dove si è e prender fiato – in taluni casi – è sufficiente a far ‘sì che il fantasma d’un vecchio amore “a senso unico” se ne resti relegato tra i ricordi; io, per esperienza personale, posso parlarvi di come – inaspettato ed ormai insperato – un nuovo amore, finalmente ricambiato, sia perfino in grado di  instillarvi il dubbio che – poiché un’anima di raso può diventare una casa accogliente e sicura – allora, forse, c’è ancora modo di salvarsi dall’imminente, vertiginoso tracollo.
Più di questo, però – in tutta onestà – non posso fare, un po’ perché – come accennavo pocanzi – non mi compete e un po’ per scelta: sono – e ne vado fiero – un uomo di lettere e di pensiero, un intellettuale – per così dire – e, dunque, a me spetta la denuncia, non certo la proposta.
Tuttavia – poiché conosco e studio “gli umani accidenti” – vi esorto a ritrovar voi stessi negli occhi assetati di vita d’un bimbo: per lui – che ha appena quattro anni – questi discorsi, adesso, sono ovviamente assurdi (tutta colpa di zio che perde tempo a studiare) ma, domani, sarà proprio a lui – e a quelli come lui – che dovremo render conto del come e del perché siamo finiti in questo pantano, del come e del perché – distratti dal troppo che abbiamo – ci siamo dimenticati d’essere uomini, ossia di avere il monopolio – e non solo l’usufrutto – di quella Conoscenza che, da sempre, è l’arma più potente che esista."
Di Matteo Sabbatani 



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