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venerdì 8 maggio 2020

"Luna e sabbie mobili": ecco perché è nata questa nuova raccolta di poesie



Sapete, raramente mi scopro soddisfatto appieno di quel che scrivo e dò alle stampe, ma «Luna e sabbie mobili», la mia quarta raccolta di poesie – in libreria in questi giorni, edita da “Il ponte vecchio” – è, in un certo senso, l’eccezione che conferma la regola.
Dopo averne verificato più volte le bozze – prestando doverosamente attenzione, in quella sede, ad eventuali errori di battitura, refusi eccetera – da un paio di settimane, grazie alla solerzia del mio editore, l’ho per le mani e, per quanto mi costi ammetterlo, devo confessare che a questo bastardo di Coronavirus – che pure ne cagiona il rinvio a data da destinarsi della presentazione – un merito va pur riconosciuto: è fuor di dubbio, infatti, che esso mi dia l’agio, il tempo e il modo di leggerla con tutta calma e di constatare che, questa volta sì, così la volevo, così l’ho pensata e concepita,  e  così mi è venuta.
Già, perché «Luna e sabbie mobili» – che nasce esclusivamente dall’esigenza del sottoscritto di esternare il proprio stato d’animo – è il racconto, in versi, di quella che è stata ed è – da un anno e mezzo a questa parte – la mia “quotidianità esistenziale”; già, perché «Luna e sabbie mobili» è una silloge cruda, sincera e spietata che – a ben vedere – concede poco o nulla a quella sorta di “ottimismo di maniera” (lasciate che lo definisca in questo modo) che si vorrebbe andasse per la maggiore, quando invece so per certo che, nella mia come nella vostra realtà, sono le sabbie mobili a fare la parte del leone.
Vedete, tutti noi – giorno per giorno – lottiamo per non soccombere, per non lasciarci soffocare e sopraffare – appunto – dalle sabbie mobili di una società, quella contemporanea, che – dietro un dinamismo apparente – non fa che perpetuare modelli sempre uguali e ormai stereotipati come il ciclo naturale delle stagioni.
Stante quanto sopra, allora, non è un caso che proprio il ripetitivo, monotono ed immutabile avvicendarsi di primavere, estati, autunni e inverni faccia da sfondo, da “fondale scenico” perfetto al dipanarsi dell’intreccio emotivo che rappresenta il fulcro centrale di una raccolta, questa, che è – ad un tempo – intima e “antropologica”, personale e sociale: perché?
Perché, se è per mera ventura che il destino si avvede della necessità del poeta di esprimersi, ciò si deve – paradossalmente ma non troppo – alla circostanza in forza della quale la postmodernità imperante ha toccato il fondo, l’esasperante ed illogico predominio della funzione sulla struttura ha mostrato la corda e l’anomia di Durkheimiana memoria – cioè quella perdita di valori che, secondo il filosofo e sociologo francese, era stata prodromica all’avvento della società moderna – torna, pure agli albori di un ventunesimo secolo nato amorfo, monco e distorto, a farla da padrona.
In altri termini, il paradosso vuole che il cosiddetto “secolo breve”, in punto di fatto, sia tutt’altro che morto e sepolto, se è vero com’è vero che la società postmoderna continua ad ignorare, non solo e non tanto il senso ottocentesco della differenza tra solidarietà meccanica e solidarietà organica, quanto il significato letterale – ancor prima che etimologico – della parola solidarietà, nonché a fare strame dell’empatia che ad essa dovrebbe accompagnarsi.
E il poeta?
Il poeta non può – se questo è il quadro ed il contesto – che ritrovarsi più che mai solo, non può che avvertire più che mai il peso di una diversità – la sua – che è umana prima che intellettuale e – conseguentemente – non può che lanciare un grido, un’inascoltata ed incompresa richiesta d’aiuto, convinto com’è che l’ansia che lo attanaglia, lo soffoca e gli fa mancare il fiato sia la stessa che imbriglia la vita dei suoi simili, ma che costoro preferiscano (chissà perché?) evitare di prenderne atto, quasi come se il destino della specie fosse ineluttabilmente segnato, come se le curve che il fato disegna non potessero essere che cieche, come se  non restasse altro da fare che lasciarsi abbagliare dal gioco sciocco delle parvenze.
Ecco, è a queste sabbie mobili che il poeta, in un certo qual modo, si rassegna: ne combatte e ne contrasta – beninteso – la forza opprimente, ma constata anche la sostanziale irreversibilità della situazione.
Lo sa bene, a lui basta poco – da poeta – per ritrovarsi, senza parole, nell’abbraccio dell’infinito, oppure per riscoprire tutta la bellezza e la purezza del senso della vita e della poesia in una rosa che resiste ad una nevicata, ma lui col paradosso guerreggia e scende a patti quotidianamente, mentre il resto del mondo – purtroppo – fatica persino a concepirne l’esistenza: infatti, per gli altri – per quasi tutti gli altri – esiste semplicemente la ferrea logica matematica in virtù della quale uno più uno fa due, ed è “gioco, partita e incontro”.
Sì, perché – per gli altri, per quasi tutti gli altri e per il mondo – tutto il resto non esiste o – se esiste – non può essere detto e, se – pena l’emarginazione sociale – non può essere detto, allora si può – ed anzi si deve – fare il possibile per non pensarci e non pensarlo neppure: in fondo – si sa – le regole non scritte sono molto più cogenti di quelle formali, nella misura in cui anche la politica – lungi dal farsi carico dell’onere di fornire una prospettiva – si “sterilizza” nella mera  rincorsa trasformistica al consenso ed alla visibilità, con buona pace di quei principi costituzionali che ne dovrebbero orientare l’agire, oltre che della decenza.
Soluzioni, vie d’uscita?
Signori, non ce ne sono, dal mio punto di vista; signori, io – da povero poeta quale pure sono – non ne vedo; signori, poi – dopotutto – non è a me che dovreste rivolgervi: dunque, a me – per favore – non domandate.
Sapete, io – se volete – posso tentare di spiegarvi, ammesso che ci sia una spiegazione razionale, come e perché – finito un temporale, mentre il sole torna a farsi largo tra le nubi – può nascere una poesia; io, se volete, posso raccontarvi come e perché – a volte – si scrivano versi financo per scaramanzia, tentando di esorcizzare il timore – sempre presente – che la nostra fine giunga troppo presto e troppo in fretta; io, se volete, posso dirvi che fermarsi dove si è e prender fiato – in taluni casi – è sufficiente a far ‘sì che il fantasma d’un vecchio amore “a senso unico” se ne resti relegato tra i ricordi; io, per esperienza personale, posso parlarvi di come – inaspettato ed ormai insperato – un nuovo amore, finalmente ricambiato, sia perfino in grado di  instillarvi il dubbio che – poiché un’anima di raso può diventare una casa accogliente e sicura – allora, forse, c’è ancora modo di salvarsi dall’imminente, vertiginoso tracollo.
Più di questo, però – in tutta onestà – non posso fare, un po’ perché – come accennavo pocanzi – non mi compete e un po’ per scelta: sono – e ne vado fiero – un uomo di lettere e di pensiero, un intellettuale – per così dire – e, dunque, a me spetta la denuncia, non certo la proposta.
Tuttavia – poiché conosco e studio “gli umani accidenti” – vi esorto a ritrovar voi stessi negli occhi assetati di vita d’un bimbo: per lui – che ha appena quattro anni – questi discorsi, adesso, sono ovviamente assurdi (tutta colpa di zio che perde tempo a studiare) ma, domani, sarà proprio a lui – e a quelli come lui – che dovremo render conto del come e del perché siamo finiti in questo pantano, del come e del perché – distratti dal troppo che abbiamo – ci siamo dimenticati d’essere uomini, ossia di avere il monopolio – e non solo l’usufrutto – di quella Conoscenza che, da sempre, è l’arma più potente che esista.