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venerdì 26 febbraio 2016

Tornare (Soverato - parte seconda)

Tornare, sì, vorrei tornare
e rivedere il cielo e il mare
che son sinonimo di libertà,
di “capodanno esistenziale”
per una vita da sempre a metà:
perché lì non s’indossano maschere
e nessuno ti chiede di vivere
come un altro diverso da te;
e, se non amicizia, cos’è
quello spendere tempo con me
o lasciarmi anche solo a pensare,
a guardarmi un po’ dentro e a e cercare
un appiglio per non naufragare
tra le somme, che son da tirare
e comunque non tornano mai,
e il bisogno che ho di respirare,
di chetare per qualche momento,
con l’aiuto – magari – del vento,
tutto il vostro trambusto, il vivai
e il fermento dei mille pollai
che pur riempiono quest’esistenza.
È l’istinto di sopravvivenza
a colmare, con versi e speranza,
questo fiume di tempo e distanza
che guardo, con molta inquietudine,
scorrere placido malgrado me,
mentre sorella solitudine
insinua il dubbio, che invero non c’è,
che questa voglia non sappia di sé
e sia frutto d’un mero capriccio,
di un desiderio falso e posticcio.
Mi pare inutile spiegare,
a lei che in quei giorni svanisce,
che l’esigenza di tornare
non muore o non s’assopisce.
Già,
spero davvero di tornare
e ritemprarmi sotto al sole
che, a picco e perpendicolare,
narciso, si specchia nel mare,
di posar lì la grande mole
d’elucubrazioni noiose
che è insita in tutte le cose

venerdì 5 febbraio 2016

Stagioni

Una vaga sensazione di indolenza permea e pervade le prime ore di questo venerdì cinque febbraio: l’epoca è quella che è e tutti – chi più, chi meno – ne subiamo il “fascino” – si fa per dire –malato e leggermente malinconico.
Quest’anno, per di più, pare proprio che l’inverno – meteorologicamente parlando – non voglia nemmeno venire, cosa che aiuta noi poeti – sempre in balia delle bizzarre e mutevoli stagioni dell’anima – a barcamenarci un po’ meglio nel “vivere pratico", anche se l’innata attitudine a fotografare il tempo – quello “antropologico”, s’intende – turba non poco i nostri sonni: cacofonie variamente assortite – disseminate ad arte nella quotidianità del Paese – mirano, infatti, ad edulcorare la realtà di tutti e di ciascuno, distogliendo l’attenzione generale dai problemi veri; e poco male se – un domani – ci si risvegliasse in un’era nella quale la partecipazione, “il farsi carico, il prendersi cura” fossero inutili orpelli, banali incombenze da espletare – a scadenze stabilite – in ossequio al rispetto delle regole formali.
Sommessamente, da umili e semplici osservatori delle italiche magagne quali siamo, ci permettiamo di ricordare che – solo pochi anni fa, quando sembrava spirare un altro vento (ma chissà se era poi tanto diverso da quello che soffia oggi) – in molti, anche a squarcia gola, cantavano e gridavano che:
«[…]questa maledetta notte
dovrà pur finire[…]».
Adesso, tutto si è sopito; adesso – per meglio dire – in tanti si sono assopiti, ma l’alba noi – sarà che siamo ipovedenti – non la vediamo ancora.

giovedì 4 febbraio 2016

Poveri cristi

E, sotto la nebbia opaca
che ammanta ogni cosa,
c’è l’anima mia che, sacra,
prudente e gelosa,
difende se stessa dal mondo:
si muove qualcosa
nel ventre viscoso e profondo
d’una realtà come questa,
che l’abito della festa
vuole indossarlo comunque.
Anche in un bagno di sangue,
osa danzar sulle punte:
senza guardarsi allo specchio,
tiene ben chiuso l’orecchio,
per cui quel rumore di fondo
non tange la sua voluttà
e quelli che chiedon pietà
possono solo annaspare,
privi di appigli e speranza,
nel blu cobalto d’un mare
ricolmo d’indifferenza.
Oh, donna che reggi il destino
e guidi del tempo il cammino,
spiegami almeno perché
soltanto i poveri cristi,
quelli che sanno com’è
la litania dei sofisti,
non si dan pace che a te
piaccian buffoni e arrivisti

mercoledì 3 febbraio 2016

Buongiorno

Buongiorno, sempre ammesso che lo sia e/o che – in caso contrario – lo possa diventare quanto prima; buongiorno, in questa giornata uggiosa di “battistiana memoria”, tra conti che – esistenzialmente parlando – non tornano più – ed anzi, a dirla tutta, non tornano mai – ed una miriade di quisquiglie diurne che impongono – o meglio imporrebbero – al sottoscritto una presenza fattiva, vigile e concreta impossibile – allo stato e in tutta onestà – da garantire ed assicurare sotto alcuna forma.
Così, chi lo sa se quello che si apre sarà o non sarà un buongiorno?
Quelli che fanno gli oroscopi, quelli che divinano responsi, ci annoverano – in questo duemila sedici – tra i segni più forti dello zodiaco, ma – se la memoria non ci inganna – era così anche l’anno scorso e l’anno prima: dunque, i coglioni (ci si passi il francesismo), se ancora continuassimo a credere che il fato sia scritto nelle stelle, saremmo comunque noi, noi che – alla faccia della coerenza – per celia, pendiamo quotidianamente dalle labbra di Paolo Fox e pendevamo, ieri, da quelle di Branko.
Come se non bastasse, poi, la nostra scrivania – quella di casa – ci ricorda che Pitagora (ma qui si tratta al massimo di astronomia), da settimane, aspetta di essere riscoperto – o meglio, capito – ma l’armonia non trova posto – ora come ora – in una mente, la nostra, che – se ha indubbiamente sete di sapere, e di sapere filosofico in particolare – è però molto impegnata a tentare, purtroppo vanamente, di sbrogliare l’intricatissima matassa dei rimorsi, dei rimpianti e dei ripensamenti.
Certo, la buriana – in un modo o nell’altro – passerà: tante, infatti, e forti come e più di questa, ne sono e ne abbiamo passate; tante, infatti, sono state le volte in cui, come adesso – senza un motivo apparente – ci siamo ritrovati così, sospesi in balia del presente, a cercare di guardare oltre un orizzonte dalla linea curva ma che sembra immobile.
È l’attesa che snerva, specie in circostanze come questa, quando – con esattezza – non è dato nemmeno sapere che cosa si aspetta e una vocina – da dentro – insinua che magari, invece di aspettare, sarebbe opportuno muoversi in prima persona, correre in una direzione, anche se – mutuando il verso da un Guccini d’annata – «quale sia e che senso abbia chi lo sa».
Allora, buongiorno: sia come sia, da qui si comincia, perché augurarlo agli altri è augurarlo un po’ anche a se stessi.