Una
vaga sensazione di indolenza permea e pervade le prime ore di questo venerdì cinque
febbraio: l’epoca è quella che è e tutti – chi più, chi meno – ne subiamo il “fascino”
– si fa per dire –malato e leggermente malinconico.
Quest’anno,
per di più, pare proprio che l’inverno – meteorologicamente parlando – non voglia
nemmeno venire, cosa che aiuta noi poeti – sempre in balia delle bizzarre e
mutevoli stagioni dell’anima – a barcamenarci un po’ meglio nel “vivere
pratico", anche se l’innata attitudine a fotografare il tempo – quello “antropologico”,
s’intende – turba non poco i nostri sonni: cacofonie variamente assortite –
disseminate ad arte nella quotidianità del Paese – mirano, infatti, ad
edulcorare la realtà di tutti e di ciascuno, distogliendo l’attenzione generale
dai problemi veri; e poco male se – un domani – ci si risvegliasse in un’era nella
quale la partecipazione, “il farsi carico, il prendersi cura” fossero inutili
orpelli, banali incombenze da espletare – a scadenze stabilite – in ossequio al
rispetto delle regole formali.
Sommessamente,
da umili e semplici osservatori delle italiche magagne quali siamo, ci
permettiamo di ricordare che – solo pochi anni fa, quando sembrava spirare un
altro vento (ma chissà se era poi tanto diverso da quello che soffia oggi) – in
molti, anche a squarcia gola, cantavano e gridavano che:
«[…]questa maledetta notte
dovrà pur finire[…]».
Adesso,
tutto si è sopito; adesso – per meglio dire – in tanti si sono assopiti, ma l’alba
noi – sarà che siamo ipovedenti – non la vediamo ancora.
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