Smonto
e rimonto questa stanzetta a seconda del momento, come fosse un puzzle, come se
giocassi a Tetris.
È
passato qualche tempo, roba di mesi, ma – per favore – non stupitevi se, stante
quanto sopra, quelle tre o quattro riflessioni che pure avevo postato non le
trovate più. No, non sono sparite e, anzi, chi vorrà, potrà rileggerle molto
presto: ora come ora, infatti, è bene che non ve ne parli troppo, ma vi sto
preparando una sorpresa, un regalino da scartare a Natale o giù di lì e, ve lo
posso assicurare, il senso più compiuto e completo di quelle cose lo scoprirete
allora.
Nel
frattempo, ma ve ne renderete conto voi stessi, ho la più ferma intenzione di
fare capolino spesso “tra queste mura amiche e confidenti”: perché? Fatti miei,
se permettete: sappiate solo che ho bisogno di parlare, di dire senza essere
frainteso, interpretato, utilizzato, senza creare problemi a me stesso e/o a
chi mi sta vicino, cosa che è successa – purtroppo – e della quale mi dolgo
profondamente, essendo consapevole di aver agito – in ogni circostanza – nella
più totale buonafede.
Sono
un poeta – perché questo, in vero, è il mio lavoro – e dovrei sapere bene,
meglio di chiunque altro, che le parole sono la più classica e banale delle
armi a doppio taglio, che – specialmente se interpretate, lette o riferite in
virtù di una qualunque convenienza, anche estemporanea – possono far male.
Ma
il poeta – che è “incontinente” per natura – è anche, per converso, “la spugna
della gente”: ne assorbe gli umori, le diffidenze, i reciproci sospetti –
fondato o meno che siano poco importa – e poi li mescola coi suoi e ne sputa il
risultato così come viene, con buona pace di chi ascolta – che è totalmente
ignaro del processo sin qui descritto – e, quindi, della integrità del
messaggio.
Sto
male, sto male dentro: di chi posso fidarmi, se stan così le cose?
Solo di me stesso, dunque, e forse neanche fino in fondo!
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