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mercoledì 27 novembre 2013

Birilli


S’intende, non è detto che le cose vadano sempre nel modo a noi più congeniale, ma un principio di giustizia – se non in questo, almeno nell’altro mondo (ammesso che ne esista un altro) – deve pur esserci, non trovate?
Vero è che Pitagora funziona solo a scuola e solo per i triangoli rettangoli – cioè quelli coi cateti e l’ipotenusa, per capirci – mentre avrebbe fatto meglio, sul resto – su tutto il resto – a tacere, a tenere per sé tutte quelle dissertazioni sull’armonia: già, perché tutto, invece, procede – a ben guardare – esattamente al contrario, tutto è disarmonico e casuale, o segue – se non altro – una logica a noi sconosciuta, incomprensibile ed inintelligibile.
Non lo so, non so se quanto sto scrivendo abbia effettivamente un senso – o forse lo so e, proprio per questo, evito di prendere di petto l’argomento – ma, ancora una volta, approdo alla scrittura come un naufrago ad un’ancora di salvezza, consapevole che – ora come ora – solo lei mi può salvare, che solo a lei ed al riserbo posticcio e falso di questa piccola stanzetta virtuale – ora come ora – posso affidare lo stato d’animo che mi pervade, questa sensazione di totale ed assoluta impotenza nei confronti del destino.
Birilli, semplicemente birilli, ecco quel che siamo: accuratamente posizionati – per mano del fato – su quel grande biliardo che è la vita, non facciamo altro – con quanta e quale reale consapevolezza poco importa – che attendere di essere schiacciati da quella pallina che, quando nascemmo, la sorte stessa ci concesse di lanciare, riservandosi beffardamente il diritto – in nostra vece – di stabilire la forza e la velocità del tiro.
Birilli, signori miei, nient’altro che birilli siamo e – quel che è peggio – ci accompagna la certezza che urlare proprio non servirebbe: solo una parte dei nostri simili – quelli che di ciò hanno contezza – udrebbe i nostri strepiti, ma – al pari di noi – sarebbe sostanzialmente inerme, pur impegnata a cimentarsi nel nostro medesimo esercizio, ossia nello strenuo e sterile tentativo di evitare l’inevitabile.
Ebbene, lo ammetto, molte delle circostanze che ero avvezzo – un tempo – a considerare come incontrovertibili dati di realtà cominciano a vacillare, a scricchiolare e a mostrare la corda, tal che mi chiedo – senza retorica – di chi sia la colpa: mi domando, cioè, se tutto ciò si debba – e in che misura – all’incipiente obsolescenza cui, per natura, vanno incontro le alterne vicende umane, oppure ad altro.
Allibisco, resto sgomento, interdetto: timori?
No, non temo proprio nulla: non vedo – d’altronde – né cosa dovrei temere, né perché, visto che il destino è tale – ossia in gran parte ignoto – comunque, in ogni caso, sia che noi lo si tema, sia che noi si viva infischiandoci bellamente dei suoi misteriosi ed imperscrutabili disegni.
Ma la constatazione di essere un birillo, permettetemelo – per quanto ovvia e, anzi, forse persino scontata possa sembrare – resta dura da mandar giù, da «digerire», da assimilare: fa a pugni con la supponente e presuntuosa – seppur sommamente presunta – onnipotenza dell’essere umano il quale, si sa, fonda la sua esistenza su un presupposto di invincibilità che non ha nulla di scientifico e/o d’oggettivo, ma che funge – qui ed ora – da imprescindibile fondamento esistenziale. D’altro canto, così deve essere: ciascuno di noi, altrimenti, si limiterebbe a sedersi e ad attendere, rinunciando – con buona pace dell’arbitrio e della volontà – a vivere, mentre ognuno è se stesso – cioè differente dagli altri – proprio in quanto portatore di una propria e singolare visione del destino suo e di quello del mondo.
L’uomo sogna, detto in altri termini, e sogna sempre in grande, un po’ perché tanto non costa niente, un po’ perché guardare oltre gli è indispensabile per illudersi di sfuggire all’incalzante avanzare della pallina, di poter procrastinare quel momento. Sono sveglio ormai da qualche ora e, in testa, mi ritornano continuamente alcuni versi di una canzone contenuta nel nuovo album di Vecchioni, un brano asciutto e minimale che – forse perché molto intimo – non compare nella scaletta del concerto che l’artista milanese, da qualche giorno, sta portando in giro per il Paese:


«[…]però ricordami nei giorni
quando, nel computo degli anni,
ero nell’angolo, battuto,
simile a un pugile suonato;
quando da te mi nascondevo
e, per non vivere, bevevo:
un’armatura da gigante
e, dentro, un piccolo guerriero
che non aveva direzione,
che non vedeva porto o mare,
che non aveva strada o cielo
dove potersi arrampicare.
E tu ricordami com’ero,
per i miei sbagli senza scuse,
per la mia infanzia di pensiero,
le mie finestre sempre chiuse[…]»;

e ancora:


«[…]Ricorda tutte le manie
di quel cialtrone che io sono,
le indecifrabili ironie
e non ho chiesto mai perdono;
ricorda quando ti ho perduto,
ricorda quando son caduto,
ricorda quando mi hai tenuto
appeso al mondo con un dito[…]»,


parole che dedicherei a mio padre, chiedendogli – ora che non è più qui (e, si badi, dico “Non è più qui”, non “Non c’è più”) – di ricordarsi di me, di ricordarmi – ovunque lui sia – proprio per queste piccole-grandi cose. Sono sveglio – dicevo – ormai da qualche ora e – da almeno venti minuti, se non di più – mi sto lasciando andare a questo sfogo: perché? Non c’è un motivo preciso: molto probabilmente, infatti, non ce n’è uno solo e, anzi, son talmente tanti che mettersi a contarli – e a spiegarli ad uno ad uno – richiederebbe troppo tempo e la forza – che ora mi manca – di, per così dire , tornare sui miei passi , su un percorso che – in segreto ed in silenzio – ho già affrontato e che sa solo il destino se, un giorno, sarò nelle condizioni di esporre pubblicamente, cosa – questa – che, peraltro, non dipende soltanto dalla mia volontà.
Ma, ed ecco ciò che conta, quel percorso mi ha portato ad acquisire ancor più consapevolezza – qualora fosse necessario – della veridicità della considerazione dalla quale questa riflessione ha preso le mosse: siamo birilli. Vedete, noi poeti ci perdiamo sovente, e volentieri, nei meandri di elucubrazioni mentali come questa: magari, siamo capaci di star lì a parlarne e a ragionarci sopra per ore, semplicemente per catturare e affascinare il pubblico, perché ci piace vedere le vostre facce meravigliate del fatto che noi si riesca ad arrivare per davvero là dove, per paura, voi nemmeno vi avventurate.
Però…, sì…, però – quando la cosa ci riguarda direttamente o comunque ci tocca da vicino – allora anche noi diventiamo pudichi, allora il giochino (stronzi, che altro non siamo) ci piace un po’ meno, anche perché scopriamo – da par nostro – che non è poi così semplice e che, in fin dei conti, avere quella capacità di scavarsi dentro che voi tanto ci invidiate, lungi dall’essere una fortuna, ha – vista ad occhio nudo – tutte le sembianze e le fattezze di un'ulteriore – non richiesta, non cercata e non voluta – sfiga!

Matteo Sabbatani

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