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mercoledì 6 novembre 2013

«Io non appartengo più»: tutti i segreti, e i contenuti, del nuovo album di Roberto Vecchioni


Eh sì, gli perdoniamo pure quella brevissima autocitazione sul finire della penultima strofa del brano omonimo dell’album, quel «Io volevo ed eran voli» che fu il titolo, qualche anno fa, di una raccolta di poesie data alle stampe per sostenere una giusta causa; e lo facciamo – gliela perdoniamo, cioè – mossi non già da permissivismo, manierismo o magnanimità (non amiamo annoverarci tra quelli che, “siccome lo ha scritto – o lo ha detto – il prof., allora è bello o è giusto a prescindere) ma perché lì – in quella canzone – e, a maggior ragione, lì – alla fine dell’album – quel verso acquisisce – a nostro giudizio, s’intende – il suo significato più pieno e pregnante.
Sì, perché questo «Io non appartengo più» di Roberto Vecchioni è un album in cui la dimensione privata e personale e quella pubblica, “sociale e politica” del cantautore si mescolano alla perfezione: il Professore, infatti, decide di rifugiarsi nell’amato umanesimo in cui il silenzio è l’insieme d’ogni voce, ergendolo ad ultimo baluardo, ad ultima, strenua ed estrema difesa nei confronti di una società – quella contemporanea e postmoderna – che, se si vuole anche paradossalmente, ha finito – assumendo e subendo passivamente i modelli imposti da quei mass media che paiono capaci di propinarci soltanto un inventario sempre mutevole di suppellettili – per ritrovarsi imbrigliata nell’eterno castigo di un pianto antico, rinunziando di fatto – anche su un piano individuale – a qualsiasi autonomia di scelta.
Questa, in altri termini, è una società che – in preda com’è ad un effetto domino apparentemente auto poietico e inopinatamente autoreferenziale – si regge sul falso mito dell’uomo indomito e procede a tentoni, lasciandosi abbagliare da quest’ultimo – col suo portato di finte scaramucce e contrapposizioni sterili e prive di contenuto – come se, appunto, Sofocle e il suo Edipo a colono non fossero mai esistiti, come se non esistesse il libero arbitrio, come se – dal quattrocentouno avanti cristo ad oggi – nulla fosse accaduto, come se il rapporto uomo Dio – o, se si preferisce, uomo destino – fosse, ora come allora, unidirezionale ed univoco.
Ma così non è e, anzi, Dio – che, nel solco della più consolidata poetica vecchioniana, consapevole di avere comunque l’ultima parola, continua a giocare a nascondino con gli uomini – si può pure dribblare con una finta, tale e tanto è il dubbio che non sia che un refuso grammaticale di un alfabeto sociale che – ben lungi dal riscoprire il senso effettivo delle parole ed il loro corretto utilizzo – condanna l’individuo ad un solipsismo cibernetico che si estrinseca in relazioni eminentemente virtuali, con buona pace – sembra dire il Nostro – di quell’antico sogno di eguaglianza ed equità che proprio in Grecia vide gli albori e del quale, invece, l’attuale declinazione della democrazia sembra voler far strame, impegnata com’è ad inseguire e a postulare – nella migliore delle ipotesi – una concezione meramente funzionalista del rapporto uomo società (il pensiero orizzontale) e/o ad incunearsi in sentieri populistici e demagogici (la democrazia totale). Ecco, dunque, perché e a cosa il “poetastro” – come lui stesso si definisce – non appartiene più; ecco, allora, che – rifuggendo e rigettando, anche dal punto di vista formale (ovvero stilistico e narrativo), schematismi e ortodossie – egli ci invita a riappropriarci della considerazione per cui il futuro si costruisce solo con la consapevolezza e la conoscenza di ciò che è stato, poiché:

«[…]in questo solitario viaggio
di paura e di coraggio,
non esiste mai un addio[…]»
e
«perché il passato è lì davanti
e la tua vita è quel che senti
e che nessuno ruberà»,

come canta il trionfatore di Sanremo duemilaundici in “Così si va”, brano in cui – peraltro – il titolo si fa anafora, figura retorica a cui l’artista ricorre sovente in questo disco, come a voler fissare – aprendo più strofe col medesimo verso – l’importanza di un concetto. Già, perché questa, a ben guardare, è un’epoca in cui – dopo che l’occidente, con la scusa di doversi disfare delle ideologie, ha gettato alle ortiche anche le idee – di concetti fissi – cioè di paradigmi in grado di offrire una lettura della realtà, una prospettiva – non ce ne sono più: anche Vecchioni, pertanto, veste i panni del disilluso e scorato capitano di una nave a bordo della quale una ciurma impaurita e renitente vaga, senza meta, in balia di un mare che, imperterrito, continua ad incresparsi di onde; in altri termini, oggi, è come se quei segni con la matita rossa che – siccome tanto la mappa non si faceva disegnare – nel settantasei non servivano, fossero divenuti – in un gioco di climax crescenti che quasi si sovrappongono l’un l’altro – una volta celeste colma di stelle così sparpagliate, sbracate, stralunate, perdute e miserabili da non riuscire nemmeno ad indicare l’orizzonte, a dare un senso compiuto, una rotta precisa alla navigazione.
Dunque, cosa resta? Come reagire, come uscire da questa vacuità di fondo?
Per il cantautore meneghino, il conto è presto fatto e, per fortuna, non è a saldo zero: a lui, infatti, non importa un fico secco – un domani – di passare alla storia, d’essere ricordato per quel che scrive ed avrà scritto, per tutte quelle parole – cioè – che han fatto piangere, sognare e vincere chi solitamente perde; no, colui che – a colpi di canzoni e, appunto, parole – ha messo all’angolo, fatto impallidire, stordito, massacrato, sputtanato e fatto fuggire persino il dolore dal ring della vita, colui che ha compreso la netta superiorità dell’uomo rispetto al dolore medesimo, vuole essere ricordato solo per le sue manie, le sue cialtronerie, le sue indecifrabili ironie.
Intanto, però – proprio perché a nessuno è concesso, e nessuno si può concedere di sua sponte, il lusso di giocare a rimpiattino con un tempo che è sempre meno di quel che si pensa – è perfettamente inutile perderne troppo a rincorrere le miserie immobili di questa esistenza: meglio – allora – innamorarsi dell’amore, lasciarsi precedere, indicare la strada e condurre per mano dalle nipotine, insegnando loro a diffidare delle apparenze e a non temere le differenze; meglio tentare di ritrovare – tra i versi della poetessa polacca, premio Nobel per la letteratura nel 1996, Wisława Szymborska, recentemente scomparsa – la sorpresa del mondo, la magia d’essere vivo; meglio giocare sì – ma di sponda – con Borges, cercando di scoprire il miracolo segreto insito in quel giocattolo di vetro che è la vita; meglio, da ultimo – nel ricordo di Franca Rame – prendere esempio dalle donne, tutte le donne – dalla matita di Dio, madre Teresa di Calcutta, a Rosa Luxemburg, dalla scrittrice francese Simone De Beauvoir (Parigi, 1908-1986) alla più dedita delle infermiere, dalle contadine alle studentesse – per imparare davvero il mestiere d’esser uomini.

Matteo Sabbatani

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