E
dire che pensavo – povero illuso, che altro non sono – che, in ogni cosa, una
quota del destino fosse – per così dire – da costruire autonomamente; e dire
che pensavo che farlo fosse un dovere, prima ancora – e piuttosto – che una
mera possibilità.
Invece
– e, lasciatemelo dire, purtroppo – no, non è così; no, non lo è, perché – se è
vero che, come ho precedentemente cercato di argomentare anche in questa sede,
il mondo è fondamentalmente disarmonico – è parimenti inconfutabile che, benché
a regnare e a farla da padrona sia la casualità, esiste una sorta di ordine
ontologico che – in qualche misura – indirizza e guida la casualità medesima,
sia pur determinando – per paradosso – il continuo persistere del massimo grado
di contingenza della – e, al contempo, nella – realtà.
Sociologismi
sterili?
I
meno avveduti – ovvero, ahimè, la stragrande maggioranza dei miei simili –
etichettano in tal modo, ne sono certo, queste dissertazioni, salvo poi – quando
la sorte decide di mostrarsi nuda e cruda per com’è – ritrovarsi basiti,
interdetti e incapaci di capire: ecco, allora, che – sovente – sconcerto e
disperazione prendono il sopravvento; ecco che ci si scopre ad imprecare contro
il destino cinico e baro, mentre lui – il destino, appunto – fa solo il suo
mestiere, né più e né meno.
Vedete,
il vivere – quotidiano e indispensabile accidente di ogni specie, ivi compresa
quella umana – elargisce porte in faccia e spalanca portoni secondo un
equilibrio inintelligibile: a noi, stante ciò, basta – e deve per forza bastare
– la consapevolezza che, al giorno d’oggi, sia il puro e semplice intento della
mediazione tra interessi differenti, sia – tanto più – le strutture ad essa
eventualmente deputate sono amenità superflue; lo sono, peraltro, non già per
loro intima natura, ma perché:
«Vuolsi
così colà dove si puote ciò che si vuole», come Dante fa esclamare a Virgilio.
Sicché domandare – ci insegnano i vati – è perfettamente inutile.
E
dire…, ma niente: d’altronde, che c’è da dire?
Chi
crede può aggrapparsi, ad esempio, alle parole di Giovanni vigesimo terzo,
recentemente proclamato Santo:
«Di
cielo siamo fatti» – disse – «sostiamo qui per un poco e poi riprendiamo il
viaggio».
Agli
altri – a quelli che, come il sottoscritto, si limitano a prender atto del qui
ed ora – non resta che sperare di essere incappati in un clamoroso errore di
calcolo.
Matteo Sabbatani
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